Il 21 agosto 2015 Ayoub El Khazzani sale su un treno in servizio tra Amsterdam e Parigi, intenzionato a fare una strage. L’uomo ha un fucile automatico, una pistola e numerosi caricatori ma, prima di riuscire a portare a termine il suo piano, è fermato dall’intervento di tre giovani americani in vacanza – Anthony Sadler, Spencer Stone e Alex Skarlatos – che lo disarmano e lo mettono in condizione di non nuocere fino all’arrivo delle forze dell’ordine, in attesa alla stazione successiva. L’episodio ebbe risonanza mondiale, sia per l’onorificenza che il presidente francese Hollande assegnò ai giovani americani (e a un quarto passeggero, l’inglese Chris Norman) sia per la dinamica particolare che metteva in risalto la dimensione normalizzata, quasi “naturale” del gesto eroico. Proprio questo connubio tra eroismo e quotidianità deve aver spinto Clint Eastwood a realizzare dalla storia un film solo all’apparenza semplice, teso a un ragionamento ben più complesso e stratificato della semplice glorificazione di un atto eccezionale. Ore 15:17 – Assalto al treno sembra chiudere una trilogia che comprende American Sniper e Sully: tre film che riflettono sul compito di salvare vite, sul lato umano della responsabilità, sul peso del destino che incombe e spinge – se siamo pronti a dimostrarci pronti – al bene collettivo.
Eastwood dissemina il film di indizi che anticipano il finale, comprimendo la messa in scena dei momenti di azione in una sequenza asciutta e lineare, che sfoggia un’ammirevole enfasi antiretorica, per concentrarsi sin dall’inizio sui suoi protagonisti, sulla storia della loro amicizia, sull’infanzia che contiene in sé il futuro di ognuno di loro, sulla naturale voglia di vita e sul senso innato del dovere che informano l’anima di questi tre esemplari giovani americani. Sarebbe ora di spogliarsi di quel riflesso critico pavloviano che ci spinge a chiedere conto a un autore come Eastwood del suo sentimento patriottico e iniziare a chiedersi quali siano invece le basi etiche che lo animano. In questo, Ore 15:17 – Assalto al treno, è un film stratificato nella sua apparente semplicità, lineare e coerente nel suo messaggio morale: la scelta di mettere sotto scacco il senso stesso della finzione si rintraccia nella scelta di utilizzare i veri protagonisti della storia narrata per inserirli come corpo apparentemente estraneo in una narrazione di finzione. La mediazione attoriale, che in Sully permetteva a Tom Hanks di andare oltre il personaggio narrato, acquisendo un carattere emblematico attraverso modalità più evidentemente cinematografiche e spettacolari, qui scompare: Eastwood mette in fila film differenti – o meglio, cambia continuamente registro e tono, sfiorando il teen movie e il film di addestramento militare – per poi accompagnarci in un giro cartolinesco per l’Europa, banale quanto si vuole ma perfettamente aderente allo sguardo dei tre ragazzotti. Due soldati che non brillano per le loro qualità – siamo lontanissimi dalla perfezione assassina del cecchino di American Sniper e dal dilemma che muove i suoi gesti – e un giovane di colore che fa quasi da filtro con lo spettatore, nel suo carattere da narratore “civile” e per questo meno inquadrato: sono questi gli eroi, forse in parte inconsapevoli ma mai interamente “casuali”, a cui Eastwood affida la sua e nostra salvezza. Non è tempo di uomini che utilizzano il simbolico (e sono ormai inservibili gli antieroi grondanti storia e passato, come il Kowalski di Gran Torino) ma di persone imperfette, irrisolte, incerte che però sono capaci di fare il loro dovere, e il loro dovere (e il nostro e di tutti) è fare ciò che è giusto. Eastwood non è un manicheo e la descrizione dell’ambiente di provenienza contiene elementi di ostentata imperfezione: famiglie di amorevoli madri single in perenne disequilibrio; scuole cristiane in cui la rigidità supera il buon senso e la carità e in cui l’amore per il prossimo è una frase di facciata che nasconde imposizioni ridicolmente rigide; missioni militari in cui il tempo non passa mai, tra una telefonata in branda via Skype e qualche sciocca dimenticanza delle regole base di sopravvivenza; viaggi per l’Europa, prevedibili e goffi nella loro superficialità (il Colosseo e le pazze notti romane; Venezia, la pizza e l’ossessione per i selfie). Il ritratto generazionale di Eastwood sembra astratto e multiforme, inafferrabile e cangiante fino a quando la Storia e il destino (ci) mettono di fronte a una prova: è lì che si manifesta la normale eccezionalità dell’umano. In pochi minuti l’azione è compiuta, la giustizia (divina e terrena) è fatta: segue – in un caleidoscopio registico tra realtà e finzione – il momento di gloria, da affrontare la soddisfazione di chi è “naturalmente” nel giusto. Ore 15:17 – Assalto al treno mette in scena il bene, il suo non essere mai ontologicamente banale anche quando sembra governato dal caso. Eastwood lo fa con gli strumenti del cinema, scartando e sbuffando in maniera quasi sperimentale, donando al racconto una sorta di tattile iperrealismo: il risultato è un film ondivago, a tratti irrisolto, profondamente diseguale e imperfetto ma compiutamente consapevole, girato con uno spirito quasi cavalleresco che, in un cineasta di quasi novant’anni, non può che suscitare, accanto ai dubbi, un salutare stupore.