Una donna in bilico tra due uomini. Inizia così Inshallah a Boy, opera d’esordio di Amjad Al Rasheed e primo film giordano ad essere invitato al festival di Cannes. La protagonista Nawal, è sul balcone con un manico di scopa in mano che tenta di recuperare un reggiseno a penzoloni, ma un uomo alza lo sguardo e al tempo stesso il marito la chiama da dentro casa. A lei non resta che rientrare per non farsi vedere dallo sconosciuto, anche se in questo modo finisce per perdere qualcosa che le appartiene. Una scena che, nella sua semplice quotidianità, dice tutto del film, anticipando la posizione in cui la società tenta di confinarla, alla sua totale assenza di diritti. Perché poco dopo il marito muore e la lascia in balia dei parenti. Perché una donna senza un figlio maschio non può rivendicare la proprietà della casa che ha acquistato con la sua dote e neppure avere garantito l’affidamento della figlioletta. Il patriarcato nella sua forma più ottusa, nelle pieghe del quale Nawal cerca di destreggiarsi, ribellandosi a suo modo, ma con tutti gli strumenti a sua disposizione. Amjad Al Rasheed affida il suo sguardo alla sua protagonista e, lentamente, ci mostra un microcosmo a partire dai suoi stessi occhi. L’unica certezza sono le tre settimane stabilite dal giudice durante le quali Nawal dovrà dimostrare di essere incinta. Un conto alla rovescia e una corsa disorientata, fatta di false partenze, ostacoli e obiettivi ingannevoli e nel frattempo, la scoperta di una realtà che non conosceva.
All’improvviso si ritrova in un mondo che non conosce. Tutto si trasforma davanti a lei. I parenti, gli amici, i colleghi, i datori di lavoro, lo stesso marito era una persona piena di misteri e bugie. La donna e la sua sottomissione vanno in scena attraverso le più svariate sfumature e dettagli di entomologica precisione. Non solo la musulmana Nawal, che cerca nella preghiera un segno di speranza, ma anche la benestante Lauren, di agiata famiglia cristiano maronita, deve sottostare a rigidi codici di sottomissione, avallati da donne a loro volta sottomesse. La rabbia è possibile, ma le ritorsioni sono pesanti. Al Rasheed, si diceva, si serve di un sapiente e robusto impianto simbolico e metaforico. Il topolino che infesta la cucina di Nawal, espressione della paura della donna e della sua prigionia sempre più insostenibile, si fa anche rappresentazione di uno spazio vitale che progressivamente si chiude attorno alla protagonista. “Da bambina non avevo paura di nulla” dice Nawal alla sua piccola Nora, e la paura, che governa le sue decisioni iniziali, via via si ridimensiona. Perché c’è un pick-up da guidare, un bambino da dimostrare, un’identità che spinge per emergere. Serve tutto questo se si vuole restare a galla in una società fata di ipocrisie e antiche convenienze, squilibrata nei diritti e miope rispetto al presente. Ma non solo ad Amman uomini e donne vivono su piani differenti, e non è la religione il solo motore di tanta disparita, sembra volerci dire Al Rasheed.