È stata un’esperienza straordinaria, quasi mistica, vedere al 34 Torino Film Festival, per la prima volta in una sala italiana, a cent’anni dalla sua uscita, una copia di Intolerance (1916) di David W. Griffith, dopo lo straordinario restauro filologico realizzato dal MoMa di New York. Il film è stato restituito alla sua durata originale, più o meno di 198 minuti, in una versione che il regista stesso non deve aver mai visto in sala, visto che la produzione impose preliminarmente tagli drastici al girato. Un’esperienza straordinaria, dicevo, dal momento che il film è stato proiettato senza alcun accompagnamento sonoro: 3 ore e 20 di silenzio assoluto, con una sala che, sfidando tutte le manie e i malcostumi del contemporaneo, ha resistito immobile e silenziosa anch’essa fino alla fine.
Straordinaria soprattutto perché il film di Griffith così com’è stato ricostruito, con fotogrammi fissi (talvolta graffiati o scoloriti o bruciati) a segnalare le sequenze perdute, ha finito per avere un aspetto simile a un quadro di Tintoretto, a una delle sue grandi tele in cui il soggetto principale è scolpito attraverso il colore e la prospettiva, talvolta manieristicamente vertiginosa, mentre alcune zone secondarie della tela sono appena abbozzate, con bianco e colori tenui, risultando evanescenti e fantasmatiche. Un doppio regime quindi: a tratti iperrealistico, a tratti smaterializzante. In maniera non molto dissimile da come iperrealistica è la ricostruzione della storia di Griffith (le scenografie monumentali e le folle lo dichiarano a gran voce) e allo stesso tempo smaterializzata dalle “coreografie” melodrammatiche del muto e da un montaggio inusitato. È un fatto noto, più dai libri di storia del cinema che dalla visione diretta, l’alternarsi nella trama di quattro storie, che abbracciano un arco temporale di duemila anni: nell’antica Babilonia il principe Belshazzar viene sconfitto da Ciro, imperatore di Persia, per il tradimento del sacerdote del dio mascolino Bel-Marduk, indignato per l’introduzione del culto della muliebre Ishtar; in Palestina si svolgono alcuni episodi della storia biblica, dalla punizione dell’adultera alle nozze di Cana, fino alla crocifissione di Gesù; in Francia nel 1572 il re Carlo IX, sotto pressione della cattolicissima madre Caterina dei Medici, ordina la strage dei protestanti durante la notte di San Bartolomeo; infine nell’America del presente un industriale riduce gli stipendi dei dipendenti per contribuire alle iniziative di un intransigente gruppo di salvaguardia morale, provocando uno sciopero, represso nel sangue, e l’inizio della rovina di una coppia di giovani sposi (lui viene arrestato due volte, a lei viene sottratto il bambino…).
Le prime tre storie hanno l’ovvio epilogo tragico, la quarta invece lascia affiorare la speranza, ma ciò che importa è che, come spiegano i cartelli iniziali con delucidazioni metanarrative e note storiche (l’impianto del film è quello di un grande romanzo storico: come poteva essere diversamente nel cinema agli albori?), il passaggio dall’una all’altra è libero, analogico, risultato di una sbrigliatezza che il cinema accoglierà ufficialmente solo mezzo secolo dopo (con la New Hollywood, vista in una doppia retrospettiva pochi anni fa ancora al TFF). Insomma, mentre riflette con una lucidità e una disinibizione rarissime nel cinema classico dei successivi quarant’anni, sul lato oscuro dell’animo umano (l’odio per il diverso e l’invidia per il felice), Intolerance ci offre un compendio di quello che sarà l’ottava arte da lì a molti anni con l’immaginazione profetica del grande inventore, del genio visionario.