Denaro, maledetto denaro. L’aveva raccontata, questa ossessione fino alla maledizione e alla tragedia, in maniera mirabile Robert Bresson nel suo ultimo film del 1983 L’argent (inserito nella selezione di Venezia Classici di questa edizione della Mostra). E attorno al denaro, alla necessità di guadagnare (pochi) soldi lavorando fino a dodici ore al giorno, all’umiliazione di dover sempre contrattare con padroni continuamente evocati e quasi invisibili, alla precarietà assoluta e al cambio costante di luogo di lavoro, magari anche solo per qualche giorno, e alle misere condizioni di vita di operaie e operai in enormi, anonimi, squallidi edifici dormitori, dove si trovano pure le stanze adibite alla catena di montaggio, si concentra il più recente lungometraggio del cineasta cinese Wang Bing (tra i suoi testi imprescindibili, Jiabiangou, Il fossato, del 2010, e San zimei, Tre sorelle, del 2012). Si tratta di Ku qian (Bitter Money, presentato in Orizzonti), che del documentario ha il pre-testo (raccontare la realtà di persone colte in periodi delle loro esistenze) e del documentario che si trasforma naturalmente in cinema che abbatte la frontiera dei generi, che contiene e mantiene in ogni inquadratura la condizione documentaria e la sua inebriante messa in scena, lo sguardo tramite il quale costruire una rappresentazione dei luoghi e delle persone, inevitabilmente divenute personaggi, che in essi agiscono.
Il pre-testo è semplice, riassumibile in pochi dati posti prima dei titoli di coda ma dopo l’ultima immagine, come a dire: è importante contestualizzare, ma lo è ancor più non spiegare subito allo spettatore la fonte, anche perché quel disagio sociale profondamente contemporaneo e cinese, quel volere fare soldi a tutti i costi, è un disagio che, nella diversità dei modi, coinvolge il mondo intero. A Huzhou, definita dal regista “una delle città più frenetiche della costa orientale cinese, dove c’è il più alto numero di lavoratori part-time”, nella provincia dello Zhejiang, ci sono 18.000 officine private di abbigliamento nelle quali vi lavorano oltre 300.000 operai venuti dalle zone rurali di altre province. Da una di queste, lo Yunnan, arrivano tre giovani che abbandonano temporaneamente la famiglia con l’obiettivo di guadagnare più denaro nel più breve tempo possibile. Troveranno una moltitudine di persone come loro, sottopagate e attente a non entrare nella rete di società che promettono guadagni facili in cambio di investimenti. Wang Bing le racconta, sta in mezzo a quelle donne e quegli uomini, diventa, lui e la sua macchina da presa, uno di loro, e tale complicità la dichiara rompendo la parete invisibile tra ciò che sta in campo e si vede e ciò che sta fuori campo ed è nascosto. Una delle donne (la persona/personaggio indimenticabile del film, che parla dei maltrattamenti subiti dal marito, che poi in una scena filmata in un lungo piano sequenza la picchia ripetutamente nel loro piccolo negozio di fronte a dei testimoni perché lei non vuole andarsene da casa dopo esservi stata cacciata) si rivolge a chi sta filmando invitandolo a seguirla per vie strette e buie. Altrove, l’ombra di chi filma, mentre sta seguendo un uomo su una scala, è riflessa sul muro, errore che si fa segno teorico. Due sorelle invitano chi filma ad avvicinarsi per fargli vedere su un cellulare fotografie del loro villaggio.
Ku qian, espanso nella durata (157 minuti), che serve a Wang Bing per far sentire con la sua macchina a mano il disorientamento di quella massa sottoproletaria spostandosi da un soggetto a un altro come in un unico piano sequenza (espediente ricorrente e fondamentale in questo approccio filmico al reale), è un film dove il tempo non esiste, dove è lo spazio, anzi gli spazi, a farsi tempo, aderendo così al vissuto dei personaggi per i quali le date sembrano sparite (loro, simili a braccianti, aspettano solo la fine della stagione, i mesi delle vacanze, forse coincidenti con il ritorno a casa), il giorno e la notte identici, sovrapponibili, nel vagare senza sosta per le strade, da una stanza alle altre, inquieti, sobri o ubriachi, incerti, tante volte sdraiati o seduti su un letto per abolire ulteriormente il tempo.
Quasi tutto Ku qian è ambientato in un angolo di Huzhou. Ma l’incipit, sorta di un lungo prologo, contiene alcune delle scene migliori del film. Wang Bing segue la partenza dei tre giovani dallo Yunnan, il viaggio in pullman e treno. Sul treno affollato ovunque, dove al giorno succede la notte e poi un nuovo giorno, le persone dormono sui sedili, per terra, appoggiate alle pareti, qualcuno gioca a carte. Fin da subito, Wang Bing è fra/con loro, comprese figure anonime che saranno lasciate al momento della discesa. E già nelle tappe del viaggio mette in campo una sua precisa scelta estetica: stare vicino, talvolta addosso, a singole persone o gruppi per poi, senza stacco, spostare di poco la macchina da presa e filmare corridoi claustrofobici (di un vagone, dei palazzi) per vedere cosa accade in quegli anfratti e in fondo a essi. Sempre, una questione di spazi dentro i quali il tempo si scioglie.