Scommettere sul talento: è la dinamica che muove entrambi i personaggi de La battaglia dei sessi, il vanesio ex tennista ultracinquantenne Bobby Briggs – il “maiale maschilista”, come si definisce con lucido gusto per la provocazione – e la stella della racchetta Billie Jean King, impegnata nella sua ascesa al tetto del mondo sportivo. Ma in fondo la scommessa è anche quella della coppia registica formata da Jonathan Dayton e Valerie Faris, talentuosa appunto, come ha già dimostrato con i numerosi premi vinti nel campo dei video musicali e con l’exploit dell’esordio di Little Miss Sunshine, poi bissato con la commedia Ruby Sparks. L’aspetto vincente dei colpi assestati dal duo registico sta nella capacità assoluta di aderire empaticamente al vissuto dei personaggi, pure quando il contesto sembra rivendicare la centralità della storia. Prendiamo il caso specifico: il rischio più banale era far ricadere la pellicola nel classico compiacimento della ricostruzione estetica legata agli anni Settanta; oppure nell’appiattimento forzato dalla dicotomia uomini/donne, vista la posta in gioco “socio-politica” della sfida tra i due campioni, in cui l’una cerca di dimostrare il valore femminile e l’altro si pone quale paladino della supremazia maschile in una società ancora divisa per generi. E che dire della classica dinamica da “film sportivo”? Ultima trappola era quella dell’eccessiva tipizzazione favorita dalla commedia, il rischio cioè di prediligere il gusto per l’ensemble alla sincerità dei singoli (alla David O’ Russell, tanto per fare una paragone). Niente di tutto questo, per fortuna: Dayton e Faris prediligono anzi uno sguardo trasversale che indaga il vissuto dei personaggi attraverso un costante lavoro di relazione con gli spazi pubblici e privati. Che significa, la capacità di analizzare quanto la nettezza dei ruoli si stemperi in un dietro le quinte problematico, dove si rimettono in discussione le certezze: lui, Bobby Briggs, appare così un bambino che affronta un mondo più grande di lui con il rischio di chi vuole soltanto fuggire le responsabilità e perciò non sa tenere insieme i pezzi del suo matrimonio.
La scelta di Steve Carell aggiunge valore artistico perché poggia sul precipitato iconico di un attore duttile quel tanto che basta da saper far emergere tanto il lato più fiammeggiante del carattere, quanto la sua umana fragilità. Un uomo detestabile, ma che non si riesce a non adorare. Lei, Billie Jean, è invece una campionessa in costante e determinata ascesa verso la vetta, sicura del proprio talento e della propria femminilità, eppure costretta a rimettersi in gioco nell’identità sessuale, complici le pulsioni fino a quel momento inesplorate e “proibite” per una società che sta ancora cercando il proprio baricentro. A dare corpo anche qui un’ottima Emma Stone, che incarna una fisicità nervosa eppure fragile, che sta fra la levità fluttuante del ricordo di La La Land e la grinta degli Amazing Spider-Man. L’approccio visivo di Dayton e Faris lavora di concerto con gli attori e gli ambienti, mette da parte i classici tic identificativi per cercare una recitazione naturale che restituisca spontaneità ai gesti – come nei colpi della partita da tennis, precisi eppure morbidi nella loro eleganza. L’uso espressivo dei luoghi descrive così geometrie inattese, esprime traiettorie non lineari e ritaglia porzioni di inquadratura astratte che favoriscono l’immersione in una realtà ondivaga e in cerca della propria determinatezza: una capacità di pensare per immagini che va ben al di là della mancata trattazione esplicita di temi e contesti sottolineata ingenuamente da alcuni. La battaglia diventa così l’autentico corollario di un ritratto sentito in cui non ci sono vincitori e vinti, ma solo giocatori impegnati a definire il disegno mutevole del mondo.