Il formato è quadrato, un 4:3 che raramente si vede ancora al cinema, e spesso è ulteriormente ridotto in una striscia verticale, una finestra circondata ai lati dal nero quando entrano in campo le riprese fatte con i cellulari. L’argomento è altamente drammatico, la frattura infinita e non ricomponibile, almeno nel presente, fra adulti e ragazzi, genitori e figli, istituzioni (scuola, polizia) e adolescenti. Si potrebbe pensare, per scelta del formato e per complesse situazioni sociali, a Mommy di Xavier Dolan. Ma (fortunatamente) Home (titolo beffardo, perché nessuno dei personaggi, soprattutto quelli più giovani, una casa la condivide davvero, nel senso di rifugio, protezione) della trentottenne regista belga Fien Troch non possiede neppure minimamente la volgarità estetica e le isterie comportamentali del film del cineasta canadese. È vero, talvolta Troch, all’interno di quello schermo ristretto, muove la macchina da presa per scatti avvicinandosi in tal modo ancora di più ai corpi, creando un certo fastidio visivo, un surplus non necessario. Poi, però, alla visione complessiva, quei gesti filmici fastidiosi non dominano una messa in scena consapevole, un racconto che crea un disagio credibile in una progressione tragica e senza risposte.
Home (presentato in Orizzonti) documenta un quadro sociale non solo limitato all’ambientazione belga, ma universale. Da una parte ci sono genitori e parenti rinchiusi nei loro codici del tutto inadatti a (cercare di) comprendere i figli, i cugini, i loro amici. E quando tentano di farlo crollano in stereotipi determinati dalla superficialità del loro sguardo (emblematica la scena nella quale gli zii di Kevin, il ragazzo uscito di prigione per avere pestato un uomo per strada insieme a un amico e da loro accolto perché rifiutato dai genitori, gli regalano un televisore che lui, rimasto solo, spegne subito per tornare a usare il suo televisore, ovvero il telefono cellulare) o da un eccesso d’amore che è diventato (p)ossessione e follia (la madre di John, figura di pazza da film horror, imbriglia il figlio in regole assurde, fino a divisioni dello spazio casalingo che soltanto lei vede, e in una sottomissione sessuale masturbandolo – come faceva, in altro contesto, Jill Clayburgh ne La luna di Bernardo Bertolucci). Dall’altra parte ci sono gli adolescenti: insofferenti, sbruffoni, violenti in reazione a qualsiasi cosa entri nella loro comunità dall’esterno. Sono soli, possono confidare solo in se stessi. E esprimere il loro disagio fino alle conseguenze più estreme. Dovranno, con atto concreto e al tempo stesso simbolico, uccidere i genitori (qui, la madre di John), non farsi delatori, r/esistere uniti, come nella scena finale che li vede tutti all’interno di un’auto (escluso John, catturato dopo avere ucciso la madre, che però non ha confessato la complicità dei due amici nell’omicidio, proprio come Kevin non aveva denunciato il ragazzo autore insieme a lui del pestaggio – e così Fien Troch costruisce una circolarità narrativa, un loop dal quale non sembra esserci per ora punto di fuga). In quest’opera corale, i dettagli assumono un posto rilevante. Più di qualsiasi dialogo o scontro verbale o fisico contano i gesti sui quali la regista si sofferma. I tic nervosi dei ragazzi (le braccia e le gambe che tremano, il continuo grattarsi la pelle, il toccarsi i capelli…), isolati più volte nelle inquadrature, dicono, silenziosamente, la loro immensa sofferenza. Troch osserva, non dà giudizi, pone domande.