Che François Ozon abbia una sorta di venerazione nei confronti di Rainer Werner Fassbinder lo sappiamo fin dai tempi del suo quarto lungometraggio, Gocce d’acqua su pietre roventi (Gouttes d’eau sur pierres brûlantes, 2000), adattamento della pièce teatrale Tropfen auf heisse Steine di Fassbinder mai messa in scena fino ad allora. In apparenza soprattutto la venerazione di un cineasta omosessuale nato alla fine degli anni Sessanta verso un cineasta omosessuale nato a metà degli anni Quaranta che, a partire proprio dalla fine degli anni Sessanta, dà diritto di cittadinanza permanente nei suoi film al tema dell’omosessualità, infrangendo un tabù ancora intatto nel cinema, esplorato dentro e fuori senza compiacimenti e attraverso la lente spietata della lotta di classe che sconquassa in quegli anni (i cosiddetti anni di piombo della RAF e delle Brigate Rosse) la società capitalistica, tutta basata sul «diritto del più forte». Andando più in profondità, però, quella venerazione è quella dell’allievo cui il maestro, seppure assente, ha fornito attraverso la sua opera un lessico personale e professionale e una sintassi che gli consente di usare quel lessico con la libertà incondizionata dell’artista. Una sintassi determinata anche dalla predilezione di entrambi i registi per il genere classico del melodramma (quello hollywoodiano di Douglas Sirk), che Fassbinder raggela e svuota, mentre Ozon lo vezzeggia e semmai ne fa parodie spesso venate sia di ironia che di tenerezza.
Il 18 maggio esce nelle sale italiane il penultimo film di Ozon, Peter von Kant (2022), distribuito curiosamente quasi un mese dopo l’uscita dell’ultimo, Mon crime – La colpevole sono io (Mon crime, 2023). Si tratta di un adattamento del film di Fassbinder Le lacrime amare di Petra von Kant (Die bitteren Tränen der Petra von Kant, 1972), a sua volta adattamento dell’omonima pièce teatrale del cineasta tedesco. L’operazione di Ozon è tanto letterale, quasi feticistica, sul piano della forma, quanto libera sul piano del contenuto. L’ambientazione, le scenografie e i costumi, attraverso la fotografia e il montaggio, ci restituiscono il sapore e l’odore di un appartamento di una città tedesca dell’inizio degli anni Settanta (in Fassbinder Brema, in Ozon Colonia). La vicenda invece non è più quella di una stilista, ma quella di un regista (l’attore Denis Ménochet che lo interpreta ricorda tantissimo fisicamente l’ultimo Fassbinder): li accomuna un nome (Petra/Peter) che ricorda la durezza della pietra (che entrambi esercitano verso la/il loro assistente, Marlene/Karl) e un cognome che ricorda la razionalità celebrata da uno dei massimi filosofi dell’illuminismo tedesco (Immanuel Kant); le «lacrime amare», sebbene spariscano da titolo di Ozon, nel suo film sono assai più presenti che in quello di Fassbinder.
La struttura portante della vicenda rimane intatta: Petra/Peter von Kant vive sola/o con Marlene/Karl, assistente apparentemente muta/o, che accetta i suoi maltrattamenti sadici senza battere ciglio. Petra/Peter ha una figlia, Gabriele, da un precedente matrimonio. Sidonie, sua cugina/attrice e cantante presenta a Petra/Peter Karin/Amir, una/un ragazza/o giovane e bellissima/o, di Petra/Peter si innamora profondamente. Le/I due decidono subito di vivere insieme, ma col tempo Karin/Amir diventa sempre più distante e crudele, e inizia a trattare Petra/Peter con lo stesso sadismo con cui lei/lui tratta Marlene/Karl. Quanto Karin/Amir lascia Petra/Peter, lei/lui cade in una profonda disperazione e si rifugia nell’alcol. Il giorno del suo compleanno Petra/Peter, ubriaca/o, maltratta la figlia Gabriele, Sidonie e la madre Valerie/Rosemarie. A quest’ultima chiede scusa dicendo che non ha mai amato Karin/Amir, ma voleva solo possederla/o. Quando la madre se ne va, Petra/Peter si rivolge in modo affettuoso a Marlene/Karl, promettendo che d’ora inno poi la/o tratterò rispettosamente, ma Marlene/Karl, legata/o a Petra/Peter da una libera attrazione masochista, se ne va.
L’originalità del film di Ozon sta nel mostrarci Petra, attraverso la sua trasformazione in Peter, come un palinsesto di Fassbinder, ovvero un personaggio-maschera usato dall’autore/regista per parlare di sé e della sua relazione travagliata iniziata nel 1971 con El Hedi ben Salem, un marocchino bisessuale conosciuto in una sauna di Parigi, che Fassbinder farà recitare in diversi suoi film, tra cui il bellissimo La paura mangia l’anima (Angst essen Seele auf, 1974). Così nel film di Ozon Karin Thimm diventa Amir ben Salem e per ragioni comprensibilmente simili la parte della madre di Peter è interpretata da Hanna Schygulla, che nel film di Fassbinder interpretava Karin; lo stesso si dica del fatto che Sidonie ha inciso un disco che contiene la canzone Jeder tötet was er liebt, versione tedesca di Each Man Kills the Things He Loves, cantata da Jeanne Moreau in Querelle de Brest (Querelle, 1982), ultimo film di Fassbinder, con un testo ricavato dalla poesia La ballata del carcere di Reading (The Ballad of Reading Gaol, 1898) di Oscar Wilde. Ecco allora che il film pastiche, come altri che Ozon ci ha regalato negli anni passati, si rivela un film sulla vita del suo maestro, di cui egli tenta di restituire l’anima, e un film storico-politico, sulle vicissitudini degli omosessuali lungo il Novecento.