Mon crime – La colpevole sono io di François Ozon: l’artificio dell’illusione

Il cinema del prolifico François Ozon da sempre si sviluppa per concrezioni e aggregazioni prodotte dalle acque carsiche della sua immaginazione polimorfica e debordante. Così, accanto a racconti di taglio asciutto e intimista in cui ha preso forma una sorta di minimalismo estetico nella messa in scena di emozioni refrattarie a un’analisi solo razionale (si pensi, tra gli altri, ai tre che compongono la trilogia del lutto: Sotto la sabbia, Il tempo che resta, Il rifugio), nel corso degli anni si sono disposti racconti di taglio più eloquente e pomposo in cui ha preso forma un complementare massimalismo estetico nella messa in scena di idee refrattarie a risonanze emozionali non filtrate: è il caso di 8 donne e un mistero e Potiche – La bella statuina, cui si aggiunge il recentissimo Mon crime – La colpevole sono io, ispirato alla pièce teatrale omonima del 1934 di Georges Berr e Louis Verneuil. Si tratta in ogni caso di costellazioni di racconti che declinano diversamente il modello narrativo onnipresente nel cinema di Ozon, quello del melodramma, tendendo da un lato al «secco» e dall’altro al «dolce», come lui stesso disse a proposito della trilogia del lutto. 

 

 

Mon crime non è solo un omaggio al teatro degli anni Trenta, ma è un omaggio al teatro tout court, l’antenato con cui il cinema non ha mai smesso di fare i conti cercando di sottrarsi alla dimensione genetica della messa in scena che quello comportava e sforzandosi di trovare una dimensione mimetica alternativa, sua propria. Ogni tanto Ozon, dopo stagioni in cui il suo cinema si affida a dispositivi mimetici di taglio realistico (penso ai recenti Estate ‘85 e È andato tutto bene), torna prepotentemente al teatro come spazio in cui l’illusione, anche quando riesce perfettamente, dichiara sempre se stessa come artificio. Mon crime è anche un omaggio alla screwball comedy dell’età dell’oro di Hollywood, quella resa irresistibile da registi come Ernst Lubitsch, Howard Hawks e Billy Wilder, di cui Ozon cita esplicitamente il primo film, Mauvaise graine (in italiano Amore che redime), produzione francese girata proprio nel 1934 con Alexandre Esway (le due protagoniste lo vanno a vedere al cinema): un genere di racconto tutto basato sul cesello dei dialoghi, che si susseguono come una cascata irrefrenabile e si compongono in un mosaico perfetto, che mette spesso al centro gli stereotipi di genere (maschile e femminile) e la loro decostruzione.

 

 

Siamo a Parigi nel 1935. La squattrinata attrice Madeleine Verdier incontra per un ruolo il produttore teatrale Montferrand, che tenta di abusare di lei. Quando, poco dopo, lui viene trovato morto, lei viene accusata del suo omicidio. Su suggerimento della sua coinquilina Pauline Mauléon, avvocato senza clienti che si incarica della sua difesa, Madeleine si dichiara colpevole e nel suo discorso finale denuncia la misoginia della società contemporanea e della giustizia che la rappresenta, trasformando il tribunale nel teatro della sua melodrammaticissima performance (che ricalca il topos secolare della vergine perseguitata). La giuria la assolve per legittima difesa, mentre il pubblico si commuove ed esulta. Per Madeleine comincia una nuova vita: piovono fiori di ammiratori e ingaggi per il teatro e per il cinema. Finché un giorno la vera colpevole (una irresistibile Isabelle Huppert) bussa alla sua porta, reclamando il suo delitto…

 

 

Ozon torna ancora una volta a raccontare la misoginia inestirpabile della società occidentale e dei suoi apparati culturali, compreso il cinema, proiettandola su un fondale allo stesso tempo storico e fittizio. Come storicamente accurati e lussu(ri)osamente fittizi erano i fondali sovraccarichi e contrastati dello pseudo-musical 8 donne e un mistero, ambientato negli anni Cinquanta, e quelli leggeri a tinte pastello della commedia Potiche – La bella statuina, ambientata negli anni Settanta. Non dimentichiamoci però che sugli anni Trenta desaturati di Mon crime aleggia l’ombra ormai orfana del #MeToo e riverbera la pulsione irrefrenabile a caricaturare, punire, fustigare, eliminare il maschile autoritario e prevaricante ben visibile nei primi film di Ozon: penso in particolare all’uccisione del padre, tramutatosi in un enorme topo aggressivo, alla fine di Sitcom. I personaggi maschili del film sono poco più che manichini nelle mani delle tre donne (l’assassina fittizia, la sua avvocatessa, l’assassina vera), che li inducono a esaudire ogni loro desiderio. Ma il potere femminile, come ogni forma di potere, è a rischio di derive autoritarie o personalistiche e i titoli e gli strilli sulle prime pagine dei quotidiani montate sui titoli di coda del film ce lo ricordano, invitandoci anche a pensare che il virtuosismo da divertissement alla base di Mon crime cela a malapena una vena irriverente e sovversiva che minaccia più volte nel corso del racconto di far saltare la superficie patinata del manierismo dilagante della sua sceneggiatura e della sua fotografia.