Si riparte daccapo, ma il gioco non è quello scontato del colmare i vuoti: al contrario, il ritorno alle origini de La notte del giudizio pare soprattutto figlio della consapevolezza che lo scenario americano è irrimediabilmente cambiato. Il moderato ottimismo di Election Year (realizzato all’ombra dell’elezione poi sfumata di Hillary Clinton alla Casa Bianca) cede infatti il passo alla realtà del Trumpismo e all’ondata populista che attraversa vari paesi del globo, cavalcando il malcontento economico con le promesse di un nazionalismo più stringente. E James DeMonaco (qui solo sceneggiatore) insieme alla Blumhouse non si fa trovare impreparato: nel mettere in scena i presupposti della saga, l’autore evita saggiamente le trappole degli spiegoni – buoni al più per gli interminabili monologhi delle serie tv – e va dritto al cuore del problema, allineando il fascismo risorgente a un chiaro problema razziale. Se infatti l’elezione di Trump ha scoperchiato i nervi del ventre molle del paese, non vanno dimenticate le tensioni con la comunità nera fiorite proprio nell’ultimo scampolo di amministrazione Obama. Così si riparte dal ghetto, dalle zone popolari, come nel francese The Horde (richiamato nell’ultima parte dell’assedio nel condominio), dove la dinamica dello Sfogo viene messa alla prova dai Nuovi Padri Fondatori, allo scopo di fornire un calmante sociale che in realtà è mero pretesto propagandistico.
Più che la semplice dinamica veicolata dall’alto, è interessante però l’articolazione umana di un ghetto dove le differenze si riscrivono – coerentemente con lo spirito della saga dove c’è sempre confusione tra l’apparenza e le azioni prima e durante lo Sfogo – e si crea una sorta di tessuto sociale nuovo, che guarda a certe dinamiche da film western classico o da poliziesco anni Settanta. Una visione orizzontale, dove gli spacciatori si uniscono ai volontari delle chiese e difendono la propria terra (simboleggiata, tra gli altri, dai “grandi vecchi” del luogo) dall’invasione dei suprematisti, chiaramente identificati con l’altro. Il che è già un bel rovesciamento identitario, con una prospettiva dal basso: chi inneggia alla purezza della Patria è l’invasore, mentre i reietti sono l’America e il suo territorio. Il valore della direzione di Gerard McMurray, non meno radicale di DeMonaco (sua la produzione di Prossima fermata Fruitvale Station e la regia di Burning Sands) sta tutto nella capacità di articolare questi spunti disseminati in fase di scrittura, attraverso una messinscena non verbale, ma visiva. Il crescendo della seconda parte e la direzione dell’azione ossequiano infatti una scomposizione visiva dove i personaggi si sublimano nell’occupazione degli spazi liberi e nella delocalizzazione all’interno degli interstizi offerti dalla geografia urbana. Superati i presupposti del prologo, infatti, il film diventa un chase-movie che è tutto un inseguirsi e nascondersi fra colonne di cemento, stanze, armadi, locali abbandonati e seminterrati, destinati a culminare nella struttura verticale del condominio, simbolo dell’edilizia popolare di Staten Island – mentre resta tutto sommato abbastanza sullo sfondo la zona residenziale con le villette in stile coloniale. In questi non-luoghi che diventano improvvisamente cuore pulsante della comunità locale, i corpi si confondono e si smaterializzano fra le zone in luce e quelle in ombra, lasciando assumere ai personaggi una qualità fantasmatica che in realtà è diretta conseguenza del loro essere connessi alla propria terra. L’attacco dei Padri Fondatori diventa così una forma di sabotaggio di questo profondo legame, con cui si impongono nuove regole dall’alto e si rinnega la realtà attraverso la forza (ugualmente aggressiva e immateriale) dei mass-media. L’imposizione del punto di vista, insomma, è la vera arma di distruzione, contro una resistenza esercitata sul campo dai cittadini imbracciando le armi. Il che fa de La prima notte del giudizio anche una parabola di riappropriazione della propria materialità in un mondo virtuale e scandito dalle retoriche delle teorie sintetizzate in laboratorio: prova ne sia la mesta sorte della dottoressa Updale, ideatrice dello Sfogo, che sconta sulla propria pelle l’applicazione di una formula sganciata dalla sofferenza reale del corpo, patita direttamente dai cittadini in rivolta.