La realtà parallela di Civil War di Alex Garland

New York, centro città. Manifestazioni, esplosioni, giornalisti che si espongono e per salvarsi sventolano i loro badge di guerra. Ma cosa sta succedendo lì, nel centro geografico e politico del mondo occidentale? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai. C’è una guerra in corso, quella sì. E di quella guerra feroce e dissennata vediamo le vittime e i carnefici, ma senza la possibilità di una bussola. Alex Garland, nel suo apocalittico e neanche troppo distopico Civil War, ci proietta in una realtà parallela, come quando nei sogni non riusciamo a percepire una distanza dal mondo reale. Siamo lì, ma non sappiamo né il perché né come ci siamo finiti. La scelta narrativa è drastica: non ci sono spiegazioni, non sappiamo le ragioni delle parti in conflitto, ignoriamo perché, improvvisamente, ci troviamo in mezzo ai colpi, agli spari e alle esplosioni. La narrazione, in fondo, non mostra radici né frutti: solo un implacabile senso di “ora e adesso”. Garland in molti dei suoi film precedenti – il visionario Ex Machina, il claudicante Annihilation, il provocatorio Men – ha sempre ragionato sul concetto di deriva, sull’idea che qualsiasi concetto, portato all’estremo, contiene già in sé i segni dell’autodistruzione. In Civil War l’assunto è portato all’esasperazione.

 

 
Noi – gli spettatori, il pubblico, la popolazione civile – subiamo passivamente ciò che è messo in scena; siamo forzati ad abbracciare le conseguenze; ipotizziamo un futuro sempre più improbabile; cerchiamo una salvezza che, probabilmente, non dipende più da noi. Insomma: facciamo un passo indietro, perché davanti a noi si dipana un deserto di morte. Siamo a New York, al centro degli scontri. I territori liberati (come? quando? perché?) del Texas e della California stanno attaccando le forze lealiste (chi? come? dove?). Siamo nel centro di un conflitto senza bussola e senza coordinate. Il nostro sguardo è quello dei giornalisti al seguito di questo fantasma di guerra (di questa guerra fantasma): quello di chi cerca di trovare un significato dove il significato si è già perso. Lee (Kirsten Dunst) e Joel (Wagner Moura) hanno un piano, già più non deciso a dare un senso a ciò che un senso – da tempo – sembra non averlo più; ma destinato principalmente a definire la loro personale carriera: le forze lealiste sono quasi allo sbando e l’unico colpo giornalistico (l’estremo scoop) consisterebbe nel registrare la voce del presidente prima della resa. Le ultime parole, forse, dell’ultimo presidente ipotizzabile. Civil War diventa (e quasi si trasforma davanti ai nostri occhi) in un funereo on the road, abbraccia il genere, la storia americana, cinematografica e non, per intonare quel che appare come un definitivo de profundis. La coppia di fotoreporter canonica, pelo sullo stomaco e scarsa fiducia nel futuro, ha però i suoi necessari contraltari: il vecchio giornalista saggio e la giovane rampante, sempre sospesa tra terrore ed eccitazione. È in una sempre più complessa riduzione verso l’estrema distillazione di questa serie di sguardi diversi che impareremo a ipotizzare – ma mai a capire, ché quello Garland non lo concede – ciò che si dipana davanti ai nostri occhi. Garland mostra l’orrore nascondendo le ragioni, ci pone davanti all’ineluttabile senza porre regole di ingaggio né alibi ideologici.

 

 
Ciò che vediamo, ovvero la deriva animale del genere umano, il suo declinarsi in variabili forme di orrore, è ciò che siamo, senza spiegazioni o motivazioni. E ciò che siamo, o che siamo diventati, ridotti al nostro peggio, è la traccia del nostro unico futuro possibile. Civil War è, a suo modo, un film dell’orrore. Non ci sono ragioni e alibi perché, nello stato ferino in cui siamo precipitati, sembra non esserci né un prima né un dopo. Ci sono zombie viventi e assassini seriali, figure amorali e normalizzazioni spietate: c’è la natura intrinseca della guerra, senza ragioni e senza pretesti. Garland abbraccia un nichilismo assoluto, estremizzato, che quasi sembra trascendere le ragioni filosofiche del male. Il percorso dei quattro personaggi è un’ostentata via crucis, il segnale di una consapevolezza destinata a perdersi nell’irrigidirsi, implacabile, degli eventi. Lee, Joel, Jesse e Sammy vanno incontro a un destino che sanno essere avverso, attraversano i cerchi di un inferno bellico sempre più incomprensibile, sfidano il destino sapendo di sfidare prima di tutto il diavolo che quel destino lo ha determinato, senza spiegazioni e senza rimorso. La soluzione della narrazione di Civil War forse paga un sovraccarico, una necessità eccessiva di spiegazione. Ma il senso del percorso – proprio perché apparentemente (ostentatamente) privo di senso – assume una valenza simbolica che, in questi tempi di guerra che non sappiamo e non vogliamo definire, grava come un ‘ombra implacabile sul nostro quotidiano narcotizzato a forza, abituato a una calma che è pronta a scoppiare come una bomba inattesa.