Con un consueto intento traduttivo la “stranizza” siciliana è diventata La stranezza con un, purtroppo, profondo travisamento dei significati. La “stranizza”, che ritroviamo pure in una canzone del compianto Franco Battiato, è un sentimento misto di stupore e di sgomento che appartiene alla persona, laddove, invece, la stranezza, è un evento o un atteggiarsi di una particolare situazione che uscendo dai canoni di una normalità conosciuta si mostra in un modo differente dal solito e dalla consuetudine di quelle situazioni. Quando nel chiuso della sua stanza, in un buio evocativo di fantasmi della mente, Luigi Pirandello rivede la sua balia Maria Stella appena defunta, questa gli parla della “stranizza” come di un sentimento che pervadeva lo scrittore da giovane. A meno che la stranezza non vada intesa come la rottura delle regole del teatro che Pirandello operò con i suoi testi teatrali. Si gioca su queste ambiguità verbali e interne a una logica di impianto dello spettacolo l’ultimo film di Roberto Andò che racconta di un episodio della vita del drammaturgo siciliano (Toni Servillo) di ritorno in Sicilia per salutare l’amico Giovanni Verga (Renato Carpentieri) al compimento dei suoi 80 anni. In quell’occasione apprende della recente scomparsa della sua balia e decide di occuparsi anche dei suoi funerali. Si imbatte nei due becchini tuttofare Nofrio e Bastiano, il primo intellettuale e latinista (Valentino Picone), l’altro un po’ ignorante, ma molto pratico (Salvo Ficarra). In altre parole entrambi lavorano nel solco delle loro rispettive caratteristiche. Una loro rappresentazione teatrale, La trincea del rimorso ovvero Cicciareddu e Petruzzo, con evidenti allusioni ad alcuni personaggi della piccola Girgenti, finisce quasi in rissa quando chi si riconosce nelle maschere degli attori improvvisamente si alza dalla platea per interrompere lo spettacolo avviando un animato botta e risposta tra il pubblico e gli attori sul palcoscenico. Pirandello da dietro le quinte di un palco osserva la scena e medita. Qualche tempo dopo Nofrio e Bastiano saranno invitati a Roma al Teatro Valle per assistere alla prima di Sei personaggi in cerca d’autore.
Il film di Andò, messa da parte la sua patina farsesca nell’avvio e accettato un impianto che ripete l’eterno antagonismo della coppia dei comici siciliani, appare come un film che, al contrario di come la si possa pensare, coniugando elementi diversi tra loro in un tentativo anche riuscito di riflessione sul rapporto tra reale e spettacolare, sa mostrare un suo solido profilo strutturale che diventa argomento del suo sviluppo finalizzato a dimostrare la genialità di Pirandello, che resta il silente e discreto demiurgo dell’evento. Non poteva mancare in questo sguardo trasversale, ma molto mirato, sull’opera dello scrittore agrigentino, un ringraziamento a Sciascia che fu uno dei suoi studiosi più assidui e profondi. Al centro di questa struttura due elementi. Il primo, la messa in scena della pièce teatrale e molto “provinciale” di Nofrio e Bastiano. Non è un caso che il primo ripeta di continuo che La trincea del rimorso è una commedia, ma il cui dramma arriva nel finale. Infatti è qui che il film – come nella commedia farsesca – con una leggera virata narrativa dismette i panni del bozzetto di provincia per indossare quelli più seri del teatro da premio Nobel. Il film di Andò segue, dunque, la struttura della commedia del dilettante drammaturgo-becchino, sottolineando quelle ambiguità benefiche sulle quali si regge. In questo apparecchiare il dramma, di cui la prima parte si fa carico, è il duo Ficarra e Picone – pur nella bravura nell’assolvere alla loro funzione farsesca – a faticare un poco a uscire da quei corpi comici che li hanno contraddistinti rendendoli popolari. C’è forse un po’ troppo di Ficarra e Picone che così restano fuori da quell’ambiguità di cui si parlava.
Il secondo elemento è questa la seconda parte in cui film scivola senza scossoni per lo spettatore e va al dunque, riflettendo sul ricco e denso tema dei rapporti (in)diretti tra rappresentazione e realtà e, quindi, anche tra cinema e teatro. Un tema anticipato nella breve chiacchierata tra Verga e Pirandello, che vede l’appassionato e più anziano scrittore lodare il suo più giovane collega per la rivoluzione che aveva operato con il suo racconto profondo e innovativo sulla realtà. Detto dal verista Verga la lode acquista perfino un valore aggiunto. Il film dunque con il suo diventare anche metacinema sa farsi piccolo saggio di teoria dello spettacolo con una attenzione al pratico esercizio di quelle teorie. È così che La stranezza diventa epifania visiva di quella vera stranezza che investì il teatro e poi di seguito anche il cinema in quella rivoluzione culturale dell’inizio del 900 quando anche gli studi della psicoanalisi contribuirono a rileggere in chiave più scientifica il rapporto tra psiche e relazioni con il reale. È in questa prospettiva che il film di Andò sa fare emergere la genialità di Pirandello inventore di quella rivoluzione che cancellò progressivamente ogni confine, anche visivo (palcoscenico/platea) che divideva il pubblico dagli attori. Sei personaggi in cerca d’autore divenne dunque la manifestazione stupefatta e stupefacente, nata da quella stranizza di Pirandello nell’assistere alla originale conclusione della farsa messa in piedi da Nofrio e Bastiano. La geniale intuizione fu quella di comprendere che in quella occasione venne abbattuto quel muro invisibile e resistente, quella quarta parete che separa scena e pubblico. E fu demolita dall’incalzare di quel nuovo spettacolo che diventava globale in quella confusione tra spettatori e pubblico, tra finzione e realtà in cui i temi della rappresentazione si integrano drammaticamente con quelli della vita. I sei personaggi pirandelliani hanno la stessa profonda ragione di esistere dei loro spettatori, creati e abbandonati dal loro autore, cercano una vita da vivere nel teatro, rivoluzionando il senso di appartenenza della rappresentazione: non allo spettacolo, ma alla vita stessa.
La stranezza si fa testimone di questa progressiva coincidenza e valicando il confine sempre più labile tra vita e spettacolo lavora con cura sull’utopia di questa coincidenza, ma anche su quella che pure esiste tra teatro e cinema in quel doppio accordo che lega il pubblico nella pratica delle due discipline. Da una parte una collaborazione che tra pubblico, autore e attori, nasce dal riconoscere per vera la falsa rappresentazione del palcoscenico e dall’altra quella tra cinema e vita reale, che si regge su un altro e simile statuto, ma uguale e contrario, in cui si riconosce la falsità della rappresentazione che si assume come verità non appena prende forma sullo schermo. Da qui la ricchezza del film che prende avvio con l’apparenza di una farsa regionale con l’uso disinvolto del dialetto e poi diventa, al contempo, un interessante film biografico su Luigi Pirandello, dimostrando come il senso di una vita e di un’arte sia più efficace se il racconto riesce a focalizzare un segmento decisivo di una vita, piuttosto che l’intero arco di un’esistenza e una interessante digressione sul tema della teoria dello spettacolo a partire da quella rivoluzione dei rapporti che hanno guidato ogni successiva avanguardia e che nacquero nella piccola Girgenti, in quella Valle dei Templi già genius loci di altre e durevoli civiltà.