Katja (Diane Kruger) vive ad Amburgo con il marito turco e il loro figlio. I due si sono sposati mentre l’uomo era in carcere, a scontare una condanna per spaccio e anche lei ha avuto un’adolescenza turbolenta. Ora tutto è cambiato: una volta fuori lui si è rimboccato le maniche e ha aperto un’agenzia di consulenze fiscali; lei, bionda e innamorata, accudisce il bimbo. Una famiglia della classe media come tante ad Amburgo, metropoli multirazziale e apparentemente integrata. Un giorno Katja, che ha un appuntamento con la sorella incinta (al bagno turco, non a caso), accompagna il piccolo all’ufficio del marito e, al momento di andarsene, incrocia una giovane con cui ha un breve scambio di parole. Al suo ritorno scoprirà che una bomba le ha distrutto la famiglia e che uno degli attentatori poteva essere proprio quella donna sfiorata poche ore prima. Inizia così In the Fade (in Concorso), il nuovo film di Fatih Akin che tenta di mettersi alle spalle l’improvvido pasticcio di The Cut, con la descrizione di una serenità familiare conquistata attraverso redenzioni e fatiche, che viene strappata in un istante, nell’impulso omicida di chi rifiuta accoglienza e meticciato.
Perché, in epoca di bombe islamiche, Akin rivolta l’attenzione a forme di terrorismo autoctone che agiscono seguendo i deliri in nome di patria, razza, sangue. Il film si sposta quindi nelle aule di tribunale, dove Katja e il suo avvocato chiedono giustizia portando alla sbarra la giovane coppia di neonazisti accusati dell’attentato. Akin divide il film in tre segmenti distinti, adattando lo stile prima a un nervoso realismo per descrivere le brevi scene del quotidiano e l’improvviso peso del dolore per poi rendersi asettico e impersonale – con i tempi e i ritmi del legal drama – nella lunga parte processuale, focalizzando l’attenzione sulla ricostruzione dei fatti, cercando di non staccare la forma dalla sostanza. Certo, Akin non è un regista di sfumature: la sua visione del mondo è tetragona e manichea; le giustificazioni dei personaggi sono primarie; l’approfondimento psicologico è semplicistico e rudimentale; sin nella fisiognomica distingue in buoni e cattivi, non conosce mezze misure. La prima parte di In the Fade, con tutti i suoi evidenti limiti e le brutali banalizzazioni, scorre via veloce e l’asciuttezza del resoconto giuridico frena gli ostentati momenti di lutto di Katja e della sua famiglia. In quelle scene più sospese e familiari, quando la sottolineatura dell’autore si attenua lasciando prevalere per un attimo il fluire del racconto, si nascondono i momenti migliori del film. Purtroppo, nella terza parte, Akin vuole dimostrare una sua visione del mondo e ci impone una roboante accelerazione, che dovrebbe mostrarsi capace di tenere insieme metafora politica, analisi esistenziale e lettura della pulsione suicida/omicida del mondo contemporaneo. La messa in scena si fa più ostentata e simbolica, la ricerca del colpo a effetto – più volte rimandato per creare una rozza ipotesi di suspense – inquieta più che far riflettere, i paesaggi agresti della Grecia fanno da contraltare alle strade grigie di Amburgo con una contrapposizione di toni e colori del tutto elementare. E la scelta narrativa finale –che riduce ai minimi termini un complesso groviglio di colpa, vendetta, responsabilità, desiderio di giustizia, radicalizzazione ideologica, elaborazione del lutto pubblico e privato – diviene irresponsabile nella sua banalità simbolica e negli ovvi ammicchi e rimandi ai drammi di oggi. In the Fade è governato, in fondo, da una visceralità consapevole quanto meccanica, che finisce per essere, a suo modo, ambiguamente pericolosa.