Laboratorio d’ombra: L’atelier di Laurent Cantet

Da sempre focalizzato sulla questione dell’equilibrio, il cinema di Laurent Cantet si dispone negli interstizi che si aprono tra la frontalità delle posizioni reciproche e l’intreccio relazionale di situazioni di gruppo, in cui si agita un coacervo di questioni sociali e psicologiche. In questo senso, un film come L’atelier ha il merito di contestualizzare esattamente la condizione laboratoriale che presiede al suo cinema, mettendo in scena un contesto in cui è proprio la sperimentazione delle funzioni relazionali di gruppo a determinare il fulcro narrativo. Nato sullo stimolo di una situazione testimoniata dal suo storico assistente Robin Campillo, in occasione di un reportage per France 3 sul laboratorio tenuto a La Ciotat da una scrittrice inglese, il film si sviluppa come un dramma a maglie larghe, in cui nell’apparente solarità di una situazione estiva e volontaristica, libera da costrizioni e da frizioni strutturali, si insinua la conflittualità indefinita e latente che appartiene al gioco lasco e diffuso del tempo presente. Lo schema si produce nel corso di un’estate, sullo sfondo de La Ciotat, città dal passato portuale dismesso e ormai vissuto come un ricordo nostalgico anche rispetto alle lotte sindacali a lungo combattute per preservarne l’attività. In questo spazio neutro, sospeso sul clima vacanziero e sulla indefinitezza del tempo esistenziale, un gruppo di ragazzi di diversa estrazione partecipa a un atelier di scrittura tenuto da Olivia, una famosa scrittrice di romanzi gialli. Le funzioni sociali azzerate nel livellamento prodotto dalla circolarità laboratoriale definiscono uno spazio in cui Cantet sembra voler riprodurre in vitro la situazione “entre les murs” tipica dei suoi film, sganciandola però dalla frontalità del gioco dei ruoli (studenti, insegnanti, operai, sindacalisti, padroni…) per affidarla alla circolarità di una relazione produttivamente gratuita, fine a se stessa e alla sua mera funzionalità: dalle riflessioni del gruppo nasce l’esigenza di scrivere un romanzo giallo incardinato sul passato portuale e sindacale della città e spinto in una dimensione semplicemente finzionale.

 

È evidente che Cantet percepisce come una sfida la situazione strutturalmente finta in cui i suoi personaggi si muovono, lavorando però come d’abitudine sulla relazione che instaura sul set tra gli interpreti (trovati con la solita funzione di repérage umano) e la macchina cinema da lui attivata. L’impianto laboratoriale in cui la vicenda si muove, che prevederebbe un unico vertice dinamico incarnato nel personaggio di Olivia che determina e governa il tavolo del confronto e della creazione letteraria, produce da sé, però, un secondo polo nell’emergere in negativo della figura di Antoine (Matthieu Lucci, sorprendente col suo broncio impassibile e giudicante). Questo ragazzo qualunque, intransigente nella sua rabbia indistinta e demotivata ma niente affatto repressa, diventa il detonatore di un criterio di realtà che manca alla relazione laboratoriale instaurata dalla presenza di Olivia: nell’intreccio di proponimenti e proposte che tentano di instaurare una relazione finzionale con il passato portuale de La Ciotat, Antoine innesta una rabbia ancorata al presente fatto di tensioni sociali endemiche: distanze culturali, di genere, etniche, religiose che implodono sul tavolo del laboratorio e vengono espulse dal clima apparentemente conciliato e parificato nel confronto democratico su cui si vorrebbe basare il patto sociale instaurato nell’atelier. Antoine dice cose sgradevoli, di notte va in giro per celia con la pistola del padre assieme ad amici coi quali vive tutto l’ottundimento del tempo adolescenziale schiacciato in un mondo dagli orizzonti conclusi. L’attrazione e la paura che Olivia prova per Antoine, sulla cui vita inizia a indagare e col quale tenta di individuare un dialogo, vengono strutturati da Cantet come un accenno narrativo problematicamente orientato verso una tensione irrisolta, in cui il film cerca una chiave di volta senza tuttavia riuscire a strutturare l’insieme. L’atelier è però un film che germina proprio nella sua impossibilità di risolvere la relazione dinamica tra questi due poli incarnati da Olivia e Antoine: è come se Cantet avesse cercato un rapporto tra la propria condizione di operatore, sospinto verso la produzione di senso a ridosso di una realtà che nutre la confusione, e la necessità di dare corpo al cuore di tenebra di un mondo in cui unità e opposizione, convivenza e conflitto, sono facce non tanto complementari quanto simbiotiche. È evidente che il film risulti irrisolto, ma è proprio in questa sua fragilità che trova una sua ragione, proprio perché si colloca al centro esatto del sistema filmico del suo autore e lo svela nella sua problematicità.