Tra i suoi ultimi film, visionari e pittorici, è forse il film più immediatamente leggibile, il più esplicito nella sua costruzione in bilico tra sogno e realtà, tra ricordi e speranze tradite. Brigitte Bardot forever sa farsi omaggio esplicito a quel ricordo adolescenziale di un sogno mai realizzato, a quell’autobiografia condivisa con la generazione dello stesso regista di un desiderio rimasto tale nel tempo, dal tempo di quell’adolescenza che per tutti è la porta segreta per l’ingresso nella vita senza più illusioni, l’ingresso in una Siberia dell’esistenza che solo la vita che si vivrà può fare diventare primavera dell’anima. Il cinema di Maiewski, qui meno criptico del solito, tratteggia il ritratto di Adam, un giovane polacco che reagisce al duro regime politico del suo Paese negli anni ’60, con sufficiente ironia e una buona dose di cultura pop che filtra, quasi clandestina, attraverso le strette maglie di un controllo poliziesco invadente e incontrollato. Ma a cominciare dalla Brigitte Bardot del godardiano Il disprezzo, per continuare a Simon Templar o Liz Taylor e poi i Beatles, Adam costruisce il proprio mondo distante, quel necessario immaginario che serve a sopravvivere senza il padre disperso in quella Siberia altrettanto immaginata come meta irraggiungibile per una impossibile riunificazione. Brigitte Bardot forever è un film attraversato da due elementi che costantemente filtrano le immagini e diventano volano per una visione che continua ad incuriosire. Da una parte una forte malinconia esistenziale che sembra caratterizzare di sé ogni immagine e ogni sequenza, quella stessa malinconia del ricordo e di una bohème mai vissuta se non a tratti, in un provincialismo marginale che santifica i miti per strappare pezzi di felicità surrogata al proprio triste presente.
Dall’altra una ininterrotta visionarietà in cui il cinema diventa tassello ineludibile per l’accesso all’immaginazione, un costante stato onirico, condizione perpetua anche relazionale, in cui il giovane Adam, come l’innamorata protagonista di La rosa purpurea del Cairo, entra in quell’altra dimensione del fantastico cinematografico, scoprendone cattiverie e maldicenze, ma anche il brillante mondo che si cela dietro quell’irreale e leggendaria consistenza delle immagini che fanno da ornamento alle pareti della sua stanza. Si diceva cinema in bilico tra sogno come possibile e necessaria fuga da un presente oppressivo, quindi davvero realizzazione di un forte desiderio ed esigenza di realtà per leggere la prepotenza di un potere che entra in casa e condiziona con la violenza fisica e psicologica le vite di tutti. Ma anche cinema visionario in bilico tra accese euforie di sguardo di sconcertante bellezza e ricerca nella memoria. Immagini che trovano origine forse nel Sokurov più ispirato o nell’oltremondo dantesco di Doré e nelle architetture di un Sant’Elia o di un Piranesi attualizzate. Basti pensare alla sequenza del funerale del receptionist dell’albergo o a quella finale dell’immaginario razzo che porterà tutti lontano da ogni realtà. Una vicenda fantastica, quella di Adam, attraversata da un classicismo culturale metabolizzato da Omero in poi che si trasforma in cultura pop.
Un Eden inesistente per il giovane protagonista, che si disfa quando ritorna tristemente al desiderio di una paternità negata, a quella inesausta ricerca tanto incessante quanto infruttuosa. Maiewski utilizza il cinema come in fondo lo ha sempre utilizzato, come specchio intimo di una poliedrica forma di esistenza, un po’ come è egli stesso, regista, pittore e artista a più facce. Così diventa deformazione, rimozione e condensazione del reale in una mutazione fantastica e immaginaria tra incubo e desiderio. Per questa ragione ci sembra proprio che l’immaginario al quale attinge abbia sempre i tratti di un ambiente notturno, abitato dai sogni che lo alimentano. Maiewski porta con sé una genialità quasi astratta e fragile, a volte forse un po’ incomprensibile, ma sempre affascinante e solitaria, personale, come personale è il suo marchio. Un segno che caratterizza anche Brigitte Bardot forever, come esplicita dichiarazione di intenti per ogni futuro di Adam e del passato dello stesso Lech Maiewski. Tutto si manifesta a pieno in quella mai corrosa qualità delle immagini che sanno farsi fiammeggianti icone di una vita immaginata.