Non ci saranno voluti 65 milioni di anni come da celebre tagline del film capostipite, ma sicuramente per arrivare in fondo alla saga Jurassica sono dovuti passare quasi tre decenni e sei film, distribuiti lungo due trilogie. Se il risultato più evidente è stato l’aggiornamento di un immaginario preistorico-avventuroso che era rimasto fermo ai tempi, pur gloriosissimi, di Ray Harryhausen, il lungo arco temporale sin qui descritto ha infine costretto un plot inizialmente emblematico della modernità a dover star dietro ai cambiamenti sempre più veloci del mondo. Lo scenario proposto da Jurassic World – Il dominio è infatti molto meno fantascientifico di quello introdotto da Michael Crichton nel suo romanzo originario e corteggia i nostri tempi di multinazionali che decidono unilateralmente i destini del mondo, tra confinamenti e crisi del grano. Il paradosso è evidente anche nell’uso dei personaggi, con gli eroi del primo film qui presentati come guest star di lusso, mentre i loro omologhi di Jurassic World (il film del 2015) vivono ormai in dorato isolamento da una realtà in cui non si riconoscono più. Un po’ eco-terroristi e un po’ agenti segreti in pensione, sono insomma costretti a tornare a occuparsi dei sauri loro malgrado, all’interno di una realtà globale che vuole abbandonare tanto i parchi-prigione quanto le isolette tropicali. Sono pertanto eroi di una saga per molti aspetti decaduta, che sembra cercare altre vie, fra locuste geneticamente modificate e un clone umano che ripropone, amplificati, i temi etici da sempre sottesi a questa storia di esperimenti di laboratorio e moniti sui limiti da non superare in nome della ricerca, anche quando animata dalle migliori intenzioni. La morale, semplice se non semplicistica, è che pure l’organismo riprodotto artificialmente ha comunque la sua dignità e capacità di formare legami e affetti, come già evidente dai tempi del secondo capitolo, Il mondo perduto: Jurassic Park.
Sarà anche per questo che, a fronte di sequenze di più ampio respiro in contesti metropolitani e un bestiario fra i più variegati e aggiornati della saga – con tanto di sauri piumati “scientificamente corretti” – si avverte una stanchezza che rende Jurassic World – Il dominio residuale e superfluo, incapace di intraprendere davvero nuove strade come pure i presupposti sembrerebbero indicare. Ne fa le spese soprattutto il coté avventuroso, stretto fra sequenze che annaspano in una logica dell’accumulo che non si fa mai pienezza di spettacolo, e un sense of wonder che latita in maniera diffusa, dimostrandosi incapace di comprendere la ricetta spielberghiana, sintetizzata nel film originale da trovate tanto semplici quanto magistrali come l’increspatura delle acque nei bicchieri. Afflitto evidentemente da un’ansia da prestazione e da una scrittura che vuole essere onnicomprensiva e pachidermica come i suoi bestioni preistorici, il film di Colin Trevorrow perde ogni sfumatura, si allontana dalla cura dei dettagli e dalle sperimentazioni dei toni che pure avevano caratterizzato il capitolo immediatamente precedente di J. A. Bayona e annoia senza possibilità di appello. Un po’ come i suoi personaggi, si perde fra scenari tanto diversificati quanto asettici e che non riescono a riprodurre la specificità di un momento e un luogo. La Svizzera della battaglia finale è indistinguibile dalle foreste dell’Isla Nublar e così il racconto di questi animali clonati diventa suo malgrado l’emblema di un cinema di massa sempre più spersonalizzato, incapace di creare empatia verso personaggi che sulla carta dovrebbero suscitare ben altre emozioni e ricordi. Mesto finale, insomma, per una saga ormai distante dalle sue radici e ampiamente superata da ben altri immaginari e bestiari – si pensi alla portata epica e alla capacità di comprendere i modelli di un Godzilla vs Kong. Forse, per la prima volta, è davvero tempo di chiudere il parco e abbandonare T-Rex e compagni a una placida e definitiva estinzione.