Come fare a filmare una persona che sta morendo, i suoi ultimi giorni di vita, sfuggendo a qualsiasi pornografia dell’immagine? Wang Bing ci riesce e con Mrs. Fang (Pardo d’oro alla settantesima edizione del festival di Locarno, assegnato dalla giuria presieduta da Olivier Assayas) aggiunge un nuovo capitolo nella sua osservazione della piccola gente cinese (definizione che rubiamo dal titolo della trilogia, interrotta dalla sua scomparsa, di Djibril Diop Mambety dedicata in forma di finzione alle persone senza nome di Dakar…) portando sullo schermo storie di vite (d)ai margini sociali di quell’immenso paese. Cineasta, fotografo, video artista, Wang Bing è un punto di riferimento del nuovo cinema documentario internazionale, un autore che cesella ogni inquadratura cogliendo, al tempo stesso con esemplare rigore e naturalezza, la moltitudine di strati presenti in essa. Un percorso artistico e umano che si rinnova da un film al successivo, e che spesso si ri-genera in luoghi ricorrenti. Se il precedente Ku qian era ambientato nella città di Huzhou, nella provincia orientale dello Zhejiang, Mrs. Fang si sposta poco lontano da Houzhou, nel villaggio di Maihui. Le abitazioni povere, i portici, le strade. Il fiume. L’alta vegetazione che lo contorna e s’immerge in esso creando zone paludose. Gli abitanti. E, in particolare, una famiglia. E, ancor più nel dettaglio, una donna: Fang Xiuying, nata (come si legge nella didascalia finale) il 5 agosto 1948 e scomparsa il 6 luglio 2016. Contadina, nove anni prima della realizzazione del film (altra indicazione inserita dopo l’ultima immagine) le diagniosticarono l’Alzheimer.
Wang Bing non indugia in preliminari. Fang Xiuying è in campo fin dalla prima inquadratura. Tre brevi scene, datate 7 ottobre 2015, con lei in piedi in una stanza, mentre si guarda intorno, poi camminando all’esterno della casa, quindi ancora in piedi accanto a un letto, filmata questa volta in campo lungo. Lo stacco a nero successivo, ben marcato, contiene un’ampia ellisse. L’immagine seguente risale al 28 giugno 2016, con la donna a letto, di profilo, il suo volto e la bocca aperta con i denti esposti, sbarrati come gli occhi che si muovono cercando un dialogo ora per lei impossibile con la voce irrimediabilmente perduta a causa della malattia degenerativa. Iniziano per Fang Xiuying i suoi ultimi nove giorni. Accanto a lei, in un venire, restare e andare, la figlia e il figlio, il nipote, altre persone. E Wang Bing. Che quel volto silenzioso e quel corpo nascosto da una coperta (ma in una delle tante scene espanse lei muove le mani, le braccia, per un contatto fisico con la figlia che le prende e tiene a lungo il polso) vorrebbe non doverlo abbandonare mai, filmarlo all’infinito. Il vetro dell’obiettivo sparisce. Con il suo sguardo, e il cuore, e tutti gli altri sensi, Wang accudisce quel volto e quel corpo, se ne prende cura così come, in altra maniera, fanno le persone radunate nella stanza. Da lei il regista si allontana, ma sempre per tornarvi. Compie un ampio detour seguendo gli uomini a pescare di notte con le torce nei fondali bassi o improvvisamente, con un movimento brusco, abbandona la camera, set principale, per (in)seguire uno dei presenti che attraversa altre stanze fino a raggiungere il cortile sedendosi con altre persone. Wang specchia il suo silenzioso filmare nel silenzioso guardare della contadina. Come se non volesse, non potesse, non riuscisse a staccarsi da lei, a lasciarla, consapevole di perdere per sempre istanti di quei faticosi respiri a bocca aperta, di quegli occhi apertichiusi, di quei lievi movimenti della testa. Per poi, in un ideale controcampo, farsi da parte al momento della morte, mettersi in fondo alla stanza, soffermandosi e filmando il dolore dei familiari e mai il corpo senza vita di Mrs. Fang. Evitando, fino alla fine, qualsiasi pornografia visiva. Consegnando, nell’epilogo tre mesi dopo, la memoria di Fang Xiuying alle memorie infinite e ipnotiche del fiume, della vegetazione, della natura.