È un cinema scritto nella zona più immateriale del tempo, quello di Alice Rohrwacher, lì dove il confine della realtà smargina negli spazi più astratti della memoria, si smaterializza nei sentimenti dell’affabulazione, nella metrica irregolare di un poetare verso il basso… La quotidianità in cui vivono i suoi personaggi discende da epoche che appartengono alle zone più improprie della Storia, ai luoghi più decentrati dell’esistere sociale: un po’ caduti sulla terra e un po’ emersi dal suolo, un impasto di nuvole e fango che dialoga con la natura semidivina, ovvero semiumana, del loro essere tra i viventi… Arthur, il protagonista de La chimera (passato in concorso a Cannes76), è uno di loro: gettato sulla terra, perennemente in transito sulla sua indeterminatezza, archeologo che svende la Storia sul mercato nero della vita, evocatore di divinità marmoree custodite dal sottosuolo, profanatore di tombe. Attraversa la vita come stesse attraversando l’Ade, un po’ fantasma e un po’ viaggiatore in cerca di Beniamina, che ha tanto amato e che ora vola con gli uccelli…
Alto, allampanato, stazzonato, dolce e anche un po’ temibile, Arthur biascica un italiano docile e guarda con affetto il mondo svilito che ha attorno, le fragili umanità che lo circondano. Ha la presenza particolarissima di Josh O’Connor e sembra l’ombra un po’ vaga di un Corso Salani restituito alle sue derive infinite, tra nobile semplicità di portamento e febbrile dolcezza dell’esserci… Il treno che lo riporta verso la terra appartenuta agli Etruschi è una specie di portale tra sogno e realtà (vaghe memorie felliniane nel nome di Snaporaz…), la meta è una vecchia casa in cui Flora (Isabella Rossellini matriarcale e svanita) aspetta ancora la figlia Beniamina e accoglie Arthur con gioia. La scena pullula di figure multiple, presenze differentemente corali che offrono il loro contrappunto alla concretezza evidentemente catalizzante di Arthur: attorno a Flora c’è Italia, la serva brasiliana che nasconde in casa due bimbi, e ronza un nugolo di figlie cicisbee e vanamente normative. Dall’altra parte c’è una cricca brancaleonesca di tombaroli, coi quali Arthur intrattiene uffici d’oltretomba, utilizzando le sue doti da rabdomante che gli permettono di percepire il vuoto sotto i suoi piedi.
C’è da capire se i doni delle tombe etrusche sono un dono di bellezza da restituire al mondo attraverso le mani sporche dei tombaroli o, come dice la brasiliana Italia, un pegno per le anime dei morti da lasciare nell’ombra dei sepolcri. Vero è che il mondo del viventi, in cui si muovono gli eroi peccatori di La chimera, è una sorta di limbo fuori dal tempo, uno spazio indefinito tra cielo, terra e mare, in cui furfanteggia una varia umanità di anime che non conosce né bene né male, né bello né brutto, né sopra né sotto, né alto né basso… Alice Rohrwacher persiste dolcemente in questo suo utilizzare gli strumenti del filmare per rendere ingenua la verità, per togliere la malizia del sapere al visibile. La chimera riluce di memorie tardopasoliniane e ancor più cittiane, lascia che le dimensioni del reale si dissocino dal realismo per attingere alla funzione affabulatoria della vita. Arthur è l’incarnazione di un personaggio che transita tra gli elementi e si offre come pura materia, sempre sporco di terra, eminentemente transitorio, senza fissa dimora e senza una funzione che non sia quella di evocare un altrove che non c’è più. Forse, rispetto soprattutto a Lazzaro felice, questo nuovo film di Alice Rohrwacher è meno strutturato, lascia sfuggire tra le mani gli elementi, chiude di meno il senso della parabola. Ma è pur vero che il bandolo del filo di Arianna (o meglio di Beniamina…) sta lì nel finale d’oltremondo, in attesa di essere colto da Arthur. Va solo seguito con libertà d’animo e leggerezza di spirito, come tutto il cinema di questa regista.