L’origine del Male: Nosferatu di Robert Eggers

Come prima cosa viene da domandarsi se c’era effettivamente bisogno, oggi, di un nuovo Nosferatu, considerando i livelli di eccellenza raggiunti dal film di Murnau (1922) e da quello di Herzog (1979). La risposta naturalmente è negativa ma, come giustamente sottolinea anche Carlo Valeri nella sua recensione su Sentieri selvaggi, è un ragionamento che si potrebbe applicare benissimo a buona parte della produzione contemporanea (almeno quella mainstream e pensata per il grande pubblico, fossilizzata com’è sul ritorno al passato, sul già visto, sul già noto). Un interrogativo che va a braccetto con un secondo, se possibile ancora più prevedibile e ugualmente scontato negli esiti: la versione di Eggers potrà mai competere con le due precedenti? Anche qui lasciamo che a rispondere sia chi si sente volenteroso di cimentarsi nell’esercizio del confronto qualitativo; esercizio che, va detto, nel caso specifico di un autore particolarmente divisivo (quale il giovane regista americano) è quasi sempre subordinato a una militanza più cinefila e partigiana che oggettivamente critica. Una volta tolte di mezzo tutte le possibili elucubrazioni soggettive che ruotano intorno al progetto, insomma, tanto vale concentrarsi su ciò che il film, fatto e finito, effettivamente rappresenta. Ossessionato dal capostipite di Murnau sin dall’adolescenza, Eggers rispolvera il mito del vampiro e lo riporta alle origini, a una dimensione orrorifica e mostruosa, di puro terrore. Al bando sentimentalismi e contaminazioni young adult di sorta: il vampiro, che sia inteso come entità esterna o come specchio riflesso dell’Io, è il male, è minaccia, è morte. È la fine di un mondo.

Eggers parte da questo per tratteggiare i contorni della propria visione, una reinterpretazione che tiene conto del classico ma cerca di guardare avanti, proiettata verso il contemporaneo (sarà mai possibile ripensare alla sequenza della quarantena – e a qualsiasi sequenza di qualsiasi quarantena – in maniera finalmente slegata al mondo post-Covid?): se nel corso del tempo la natura complessa e stratificata del film di Murnau ha reso possibile una moltitudine di letture – talvolta persino in antitesi tra loro – legate alla figura di Orlok, che partendo dalla stokeriana minaccia proveniente da un mondo lontano si è trasformato, di volta in volta, in parabola sulla Repubblica di Weimar e premonizione dell’imminente ascesa del nazismo, oppure in metafora dell’inaccettabile (quindi mostruosa) omosessualità del suo autore, tirando in ballo la Storia (la prima guerra mondiale e le sua catastrofiche conseguenze per il popolo tedesco), la pandemia (l’influenza spagnola del 1918) e quant’altro, nel 2024 è tempo di ribaltare la prospettiva per aggiornarla. E allora il vampiro non è più un agente esterno arrivato per sconvolgere le certezze e infrangere i già fragili equilibri dal di fuori: stavolta l’origine del Male siamo noi. Con una brillante intuizione di script che probabilmente farà storcere il naso a molti puristi, Eggers espande il ruolo di Ellen Hutter (Lily-Rose Depp) e la trasforma in deus ex machina dell’intera vicenda, nascita e morte di ogni cosa: è lei infatti la causa scatenante del risveglio della creatura, l’oggetto del desiderio – esclusivamente carnale – di un vero e proprio predatore sessuale che porta alle estreme conseguenze il Dracula sensuale e manipolatore di Christopher Lee nei film della Hammer (ma anche quello di Frank Langella nel film di John Badham del 1979), chiaramente agli antipodi rispetto alla figura tragica e romantica reinventata da Coppola.

In realtà Nosferatu è ben lontano dallo sciogliere definitivamente i dubbi e le perplessità sul calligrafismo di Eggers, nonostante lo zampino di una major (per la seconda volta consecutiva, dopo The Northman) imponga un drastico ridimensionamento rispetto, per esempio, ai formalismi radicali dell’insopportabile The Lighthouse. Paradossalmente, però, questo cinema controllatissimo e calibratissimo nelle sue rievocazioni pittoriche, che apparentemente non sembra contemplare alcun sussulto che non sia già programmato e stabilito a priori, stavolta trova il suo equilibrio ideale proprio nel confronto/scontro con il mito del vampiro, che sopravvive e prospera in un altrove che non può essere racchiuso da nessuna bella inquadratura. Dilaga nella dimensione del sogno (altro elemento di novità, filologicamente notevole), nelle piaghe purulente e nelle ferite sanguinanti del Conte Orlok, in aperta ribellione verso qualsiasi forma di dominio da parte del suo regista e demiurgo; e alla fine si rimane incantati anche dallo stie di Eggers, che – stavolta sì! – regala un’esperienza immersiva dentro un universo oscuro e dominato da istinti primordiali, riducendo al minimo l’apporto del montaggio all’interno delle singole sequenze e servendosi della macchina da presa come strumento per cercare di indagare il vuoto (quindi il mondo, quindi l’orrore) con movimenti a 180° e con violentissimi campi/controcampi che, se proprio non portano a una comprensione dello spazio circostante, almeno inseguono un confronto impossibile tra opposti distanti. Bene e male, ragione e superstizione, vita e morte.

E se viene dato maggior risalto, soprattutto in termini di minutaggio, alla figura del professor Albin Eberhart Von Franz di Willem Dafoe, il Van Helsing della situazione (pressoché inesistente in Murnau, marginale in Herzog), nondimeno il suo ruolo è sostanzialmente subordinato alla centralità femminile di Ellen; e qualsiasi sua intuizione – scientifica o paranormale che sia – alla fine serve a ben poco, perché la soluzione è sempre tra le pagine di un libro (e nell’effigie che anticipa l’ultima inquadratura, perché tutto è già visto e già noto), come nel Vampyr di Dreyer. Ma non si parli di omaggi o di citazionismo: piuttosto, questo è un cinema che abita le immagini create in precedenza dai maestri, le attraversa (come la carrellata laterale sulle tombe e le lapidi in riva al mare, quasi oggetti di scena “rubati” al film di Herzog) e le trasporta nel presente; un cinema dove l’erotismo si fonde col mostruoso, e la bellezza con l’orrore. Insomma, è il caso di dirlo: troppe volte dato per estinto nel corso degli ultimi anni, il non-morto è ancora più vivo che mai. Per fortuna.