La triangolazione è quella del segno divino, in cui s’inscrive il Presidente nell’inizio congressuale, nell’incipit apicale di questo film senza climax, tutto disperso nel placido languore della grande caduta dei grandi. Hammamet è un’opera in dispersione, l’ipotesi di una tragedia impotente che contempla il potere caduto, piuttosto che la sua caducità. Un film in cui il senso civile dello sdegno storico si concede il lusso di far drammaturgia del declino (ma non apologia delle mani sporche, nonostante la mancanza di contraddittorio). La dismissione del giudizio storico è un lusso che il film si prende ammantandolo del tradizionale sentimento ameliano, quella nostalgia del presente in cui si perdono un po’ tutti i suoi personaggi, quel vago attraversamento dell’esistenza in fuga dalla propria biografia: il figlio delatore di Colpire al cuore, il carabiniere Ladro di bambini e via dicendo… Sarà che mentre Craxi fuggiva ad Hammamet Amelio filmava Lamerica incrociando su altre rotte mediterranee il senso di una fuga che è un malinconico ritorno alla propria dispersione, ma la sostanza di questo film, che oggi abbiamo tra le mani un po’ scomodamente, sta probabilmente proprio nella mancanza di una prospettiva intima per il suo tragico eroe, il suo essere altrove, prigioniero di un nostos impossibile, negato a quel ritorno che ne Lamerica nutriva la catarsi rumena del giovane arrivista italiano e del vecchio reduce…
Craxi, evocato da Gianni Amelio in absentia nominis, è letteralmente Hammamet, si incarna in quel luogo, nella deriva di una fuga che non gli appartiene, ma lo definisce sino in fondo e lo consegna alla (sua) Storia: Amelio lo guarda come fosse una dramatis persona, il suo Ludwig personale, lo contempla mentre langue irrequieto, malato, come fosse Gustav von Aschenbach sul Lido veneziano, trovando il suo Tadzio non tanto nel nipotino garibaldino, ma piuttosto nella presenza inquieta e inquietante di Fausto, il figlio del tesoriere del suo partito, che irrompe nella sua villa portando nel suo zaino una lettera del padre suicida, una videocamera e, forse, una pistola. Tutto ruota attorno alla caduta del potere, all’impotenza di fronte alla fine che si erge come un edificio al centro di quel luogo che risucchia persino il nome del Presidente. Amelio lavora per astrazione ma non per metafora, non cerca l’archetipo della Tragedia più di quanto non cerchi il giudizio della Storia. Non è Bellocchio, non possiede il suo istinto transreale, la sua capacità di attraversare la realtà con onirica trasparenza. Lui lavora sul dramma e lo maneggia con un classicismo cinematografico che è anche appassionante, oltreché appassionato, ci coinvolge profondamente per la consapevolezza con cui studia e ama ogni inquadratura che ci offre.
Sicché Hammamet resta sulla punta delle dita di Amelio, non brutto né davvero bello, piuttosto un po’ mancato: un film un po’ pavido, o forse solo dolce, languido, sensibile più all’umanità del suo personaggio che alla tensione simbolica di tutto ciò che ha rappresentato nella Storia italiana. Certo, lo aiuta infinitamente un magnifico Pierfrancesco Favino, che cerca e restituisce la verità di Craxi sotto il cerone, creando quell’aura di humanitas sulla quale il film respira più in profondità del suo tono pensoso. E trova nella bella colonna sonora di Nicola Piovani, imprevedibilmente più sincopata che melodica, lo spazio di una astrazione che purtroppo non riesce ad arrivare in scena. Come dimostra il personaggio del giovane Fausto, su cui scivola l’ipotesi di un giudizio morale (e anche solo di un senso di colpa del Presidente), che letteralmente scompare di scena, per poi ritornare in un postfinale che appare un po’ impacciato. Il demerito non è solo dell’acerbo Luca Filippi (nel quale Amelio più dei limiti oggettivi deve aver visto uno spettro in bilico tra le macerazioni di Helmut Berger e la rabbia di Volontè), ma proprio del film, della sua scrittura, della sua mancanza di una prospettiva trasparente da opporre al braccio corto storicistico che lo ha scritto.