Nella città delle anime morte, tra realismo e salvifici immaginari: Nezouh – Il buco nel cielo di Soudade Kaadan

Promemoria

Ci sono cose da fare ogni giorno:

lavarsi, studiare, giocare

preparare la tavola,

a mezzogiorno.

Ci sono cose da fare di notte:

chiudere gli occhi, dormire,

avere sogni sa sognare,

orecchie per sentire.

Ci sono cose da non fare mai,

né di giorno né di notte

né per mare né per terra:

per esempio, la guerra!

Gianni Rodari

 

Nezouh – Il buco nel cielo, vincitore del premio del pubblico nella sezione Orizzonti all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, possiede sicuramente un pregio che è quello di offrire allo spettatore una variegata possibilità di prospettive su una delle tante guerre laceranti che hanno sventrato Paesi e culture, nell’indifferenza quasi generale, nonostante si lamentassero le stesse stragi, le stesse violenze contro i civili e le stesse nefandezze che oggi occupano quelle testate all’epoca freddine sul conflitto civile che si svolgeva in Siria. Soudade Kaadan, giovane regista siriana nata in Francia e residente a Londra, nella sua seconda opera apre uno squarcio che non è solo di speranza per il suo Paese, ma è anche di sopravvivenza. Con il suo film, composto da inattese prospettive di sguardo, tra squarci che si aprono al mondo e osservazione di una condizione femminile spinta da una volontà di piena emancipazione, sembra non trascurare l’inattesa consapevolezza maschile in quel liminale ricredersi che equivale alla negazione di ogni tradizione. In mezzo, rispetto a tutto quanto appartiene al non esplicito e trasversalmente intuibile, ci stanno le altre prospettive, altrettante linee di fuga catturate in una situazione di privazione, di disagio, di esplosione delle contraddizioni e dei desideri, di progressiva frantumazione delle tradizioni e delle regole ferree dentro le quali si è consumato ogni originario legame dentro la famiglia.

 

 

Motaz e Hala, marito e moglie, vivono con la figlia Zeina in una Damasco sventrata dalla guerra, irriconoscibile e desertificata. Motaz non vuole abbandonare la sua casa, la sua città. Hala progressivamente si rende conto che in quelle condizioni la vita è diventata impossibile e Zaina, ormai abbandonata ogni istruzione scolastica, fantastica segretamente sul mondo. I colpi di mortaio squarciano i muri e il tetto della casa e mentre Motaz si dà da fare per rendere ancora abitabile l’appartamento, Hala medita la fuga e Zaina conosce Amer il suo vicino e coetaneo che le apre altre prospettive, altri mondi e le svela altri desideri.

 

 

Fondato su un registro fatto essenzialmente di un realismo filtrato da una forte componente metaforica, Nezouh sa utilizzare le fonti di una immaginazione fervida, ma non abusata, frequente, ma non invadente, per raccontare non solo la solitudine della guerra per la famiglia dei sopravvissuti, ma, in modo progressivamente accentuato per raccontare il mondo dell’adolescenza violentata dalla guerra, svelando il possibile immaginario che diventa mondo rovesciato e sguardo consolatorio e desiderante attraverso quel buco nel cielo che diventa via di fuga e di speranza. Una immaginazione, sospesa nelle pause della paura, che diventa salvifica e guarente medicamento durante la tragedia e, di nuovo, solo le immagini sanno diventare nastro trasportatore di questa possibile salvezza e fecondo terreno dentro il quale ogni sogno trova dimora.

 

 

Soudade Kaadan tiene in equilibrio i due registri narrativi e la sua storia familiare, nell’ordinaria contestazione femminile verso un padre e marito affezionato alla famiglia, ma tradizionalmente despota, si fa metafora di un’intera condizione femminile che altrettanto gradualmente prende in mano la propria vita, accettando ogni rischio, nell’incertezza del futuro. Una condizione di lenta, ma sempre più consapevole emancipazione, che si materializza in alcuni segni, il diritto di fumare senza restrizioni, le simboliche scarpe rosse che spiccano tra le macerie, la raggiunta parità tra madre e figlia non più separate dai ruoli, ma nel rispetto delle personalità, la naturale e istintiva dimostrazione pubblica d’amore nel deserto della città, che Zaina mette in opera verso l’innamorato Amer. Tutto è possibile dopo la liberazione dal giogo delle tradizioni e la regista sa rendere spontaneo ogni gesto senza sottolineature o enfatizzazioni, in quel naturale evolversi che consolida le piccole conquiste.

 

 

Ma esiste ancora un’altra prospettiva di osservazione che è quella della solitudine alla quale la disastrata famiglia di Motar, Hala e Zaina, cui si aggiunge Amer – che qui, in una istintiva lettura metaforica della storia, ha la funzione di genio rivelatore del mondo – è sottoposta. Nezouh è, infatti, anche il racconto di un deserto. La Damasco di Soudade Kaadan è un sito postatomico, dove gli scheletri delle case raccontano la vita finita, rendendo irriconoscibile le sue strade. È questo paesaggio che in parallelo ripete quello personale e di quell’abitazione inutilmente difesa da Motar, a diventare l’altro protagonista del racconto e schermo immaginario per Zaina e Amer e, infine, anche per Hala, da utilizzare in funzione di una urgente sopravvivenza. Soudade Kaadan gira un film di anime vive, sopravvissute, in una città di anime morte, rovesciando le prospettive di ogni realismo e trasportando i suoi protagonisti in un sogno pieno di speranze, ma anche carico di un segreto e quasi inespresso dolore.