Nel Cinéma algérien, un nouveau souffle (descritto in quel mediometraggio documentario da lei realizzato nel 2011), Mounia Meddour si inserisce a pieno titolo con il suo lungometraggio d’esordio Non conosci Papicha (in originale semplicemente Papicha, ovvero “una ragazza attraente e indipendente” nelle parole della regista algerina, soprannome dato alla giovane protagonista Nedjma) così come, più estesamente, nel nuovo respiro filmico che da un bel po’ di anni soffia sul cinema del Maghreb. Per la sua opera prima, Mounia Meddour (figlia del cineasta Azzedine Meddour, autore nel 1997 de La montagne de Baya, testo importante per la storia del cinema dell’Algeria, e della Cabilia in particolare, d’ambientazione storica e con al centro un personaggio femminile in lotta per non soccombere ai ricatti del potere contro di lei e il suo popolo) ha scelto di tornare indietro nel tempo di qualche decennio e di ambientare Non conosci Papicha negli anni Novanta del secolo scorso quando il paese nordafricano fu scosso e stravolto da una feroce guerra civile (a causa della quale, e delle minacce di morte ricevute dal padre, Mounia, diciottenne, e la famiglia si trasferirono in Francia) che dal 1991 contrappose il governo, e poi la nuova giunta militare, e i movimenti islamisti. Fu chiamato il “decennio nero” e morirono oltre centocinquantamila persone.
Ma in Non conosci Papicha la tensione sociale, l’elevarsi tragico del conflitto e degli scontri, la repressione, soprattutto delle donne e dei loro diritti, nel nome della religione, pur essendo poste in primo piano in alcune scene potenti (il posto di blocco e le umiliazioni che un uomo e le due amiche devono subire; gli insulti e le aggressioni rivolti a Nedjma e alle sue compagne per strada e nel campus dell’università non solo da maschi ma anche da coetanee; l’omicidio da distanza ravvicinata della sorella giornalista di Nedjma; la tentata strage durante la sfilata di moda realizzata dalle studentesse e riservata a chi frequenta il campus), vengono sempre filtrate dalla quotidianità nella quale sono immersi i personaggi, dai loro piccoli gesti, dai loro grandi sogni, dalla determinazione a non cedere e a non volersene andare anche se attorno tutto sta bruciando. Non conosci Papicha è un film politico e sociale ancor più perché non lo è manifestamente, ma attraverso il percorso d’affermazione, femminile e femminista, di una ‘posse’ di ragazze cui è consegnato il futuro di un paese. Nulla sembra possa fermare la lotta per l’indipendenza e per il rispetto di queste donne di generazioni diverse, laiche o credenti, senza o con il velo, ma mai con l’hijab che certi uomini o certe donne vorrebbero imporre a tutte. Nedjma ne è la ‘capobanda’ e trascina le altre sia nell’iniziale concretizzazione del suo sogno, diventare una famosa stilista, sia nel vivere una giovinezza in tutte le sue forme, facendo esplodere le energie e le passioni, la tenerezza e la rabbia. Nedjma è sfrontata, audace, dolce. A lei e a ognuna delle altre (a partire dalle due migliori amiche Wassila e Samira, dalla madre, dall’insegnante) Meddour ritaglia un punto di vista, una gamma di espressioni (anche di linguaggio, ricorrendo all’uso del ‘françarabe’, parlata tipica e creativa che unisce arabo e francese, e che merita la visione originale del film), come se per ciascuna stesse disegnando, proprio come Nedjma, uno schizzo che diventa forma, tessuto, abito, ovvero immagine, film, cinema. E lo sguardo filmico rende tali sfumature e pluralità ‘flirtando’ con i volti e i corpi delle ragazze, accarezzandoli, senza mai invaderli, con una macchina da presa che, muovendosi, è come se si distendesse su di loro e accanto a loro, complice un espediente visivo con il quale ‘rallentare/espandere’ l’immagine in maniera quasi impercettibile (pur necessitando una maggiore parsimonia), anche in questo caso come si trattasse di una tela ancora grezza sulla quale inventare linee, traiettorie, schemi. Movimenti sussultanti che dalla mano di Nedjma, sempre pronta a riempire fogli con i suoi disegni e a dare forme a scampoli anonimi di tessuti (fino a re-interpretare un indumento classico tipico delle popolazioni berbere, l’hàik, veste bianca e lunga, trasformandolo in abito sensuale dai molti modelli), ‘passano’ a quelli costruiti e dispiegati nelle inquadrature da Meddour che, anche quando mette in scena le meschinità, gli opportunismi, le arroganze maschili (il custode del campus, il negoziante di tessuti, il fidanzato di Wassila), lo fa mai perdendo di vista la propria poetica.