Partiamo dalle conclusioni, ovvero dal fatto che allo stato attuale la Blumhouse è fra le poche realtà contemporanee a porsi il problema di come declinare l’horror al presente e alle dinamiche dell’interazione social. Un film come Obbligo o Verità, in fondo, vale più per ciò che rappresenta, che per l’esito. Vale, cioè, per come riesce a ricontestualizzare una certa tipologia di thriller nel gioco dell’esporre se stessi nella dimensione pubblica. Ché poi è il senso stesso di quello che da noi magari è più noto come “il gioco della verità”: costringere il partecipante a confrontare la sua dimensione pubblica con quella più intima e privata, per rilevarne le contraddizioni e le debolezze celate da ciò che si sceglie di mostrare. La natura del racconto è chiarita già dai titoli di testa, che frammentano lo spazio d’azione dei personaggi in una moltitudine di momenti che rimandano a una sorta di neo “estetica-instagram”, dove la vacanza e il divertimento è anche una questione di mostrarsi nella condivisione col mondo. Di fronte a una tale dinamica, il gioco della morte interagisce anch’esso con lo spazio esterno e costringe a portare fuori il sepolto e a compiere gesti plateali, solo quando è certo di ottenere l’effetto più dirompente. La struttura è in tal modo duale: da un lato “chiusa” nella dimensione delle regole che snocciola secondo i dettami del “film rompicapo”; dall’altro, però, “aperta” nel moto estroflesso con cui spinge i personaggi a essere sempre oltre il proprio privato.
In questo senso trova coerenza sia il fatto che i volti “posseduti” dal gioco siano deformati come in un’applicazione virtuale, sia che l’indagine condotta per fermare il massacro e trovare una via di fuga avvenga attraverso l’individuazione di chiunque sulla Rete. Perché in fondo il mondo è tutto lì, già riversato sulla dimensione pubblica e solo in attesa di essere fruito. L’ambizione di Obbligo o Verità sta poi nel modo in cui una struttura così teorica agisca sul piano pratico e morale, costringendo i protagonisti a scegliere tra i segreti più legati a scelte difficili, compiute confrontando la propria dimensione etica con quella relazionale: cattiverie che non si sono dette, attrazioni che non si sono svelate per non rovinare amicizie, molestie celate per non rovinare equilibri familiari. Quindi da un lato c’è la dimensione del divertimento, se vogliamo futile, orientata al piacere del momento, dall’altra ci sono le implicazioni a più ampio raggio, che interrogano il pubblico su quanto effettivamente l’ambiente influenzi le nostre scelte. La verità implica quindi sacrifici, costringe a calpestare i principi in nome del mantenimento di un equilibrio. Che è un aspetto interessante considerato quanto la dimensione social spesso sbandieri invece la purezza etico-morale della gente, sempre pronta a inneggiarsi quale figura “autentica” rispetto alla falsità altrui. Un “gioco” reso evidente dalla circolarità del racconto che inizia con l’innocente domanda se si sacrificherebbe il proprio gruppo di amici per salvare il mondo, e che finisce proprio con una simile scelta, naturalmente smentita nel passaggio dalla dimensione “idealistica” a quella “pratica”. La protagonista Olivia diventa così l’autentico terreno di confronto del conflitto, nel suo idealismo ostentato che la spinge via via a svelare sempre più una dimensione di segreti dolorosi (per se stessa e per gli altri) nascosti nel suo passato. Un personaggio funzionale anche per l’energia con cui l’attrice Lucy Hale affronta il ruolo, stretta fra il candore virginale delle intenzioni e la fisicità di un corpo che diventa oggetto del desiderio per più di un comprimario. La regia di Jeff Wadlow cerca di veicolare questo coacervo di influenze attraverso un ritmo spedito, più tipico dei suoi trascorsi nell’action (sua la regia di Kick-Ass 2) e dona alla confezione un impianto dispersivo, che inficia alcune ottime possibilità horror. Ma nel complesso l’operazione resta interessante, oltre che fortunata al botteghino.