La fine del gioco, ovvero della saga-yakuza più recente di Takeshi Kitano, la ritroviamo in questo Outrage Coda, terzo e ultimo capitolo della trilogia iniziata nel 2010 con Outrage, e proseguita due anni dopo con Outrage Beyond. La lotta tra le famiglie Hanabishi e Sanno, per la spartizione del Kanto, sembra essere arrivata a un punto fermo, e il nuovo fronte si apre perciò in Corea, dove amministra il suo potere Chiang, per il quale lavora adesso Otomo (il protagonista interpretato dallo stesso Kitano). L’apertura di un nuovo fronte geografico – che fa curiosamente il pari con la lotta cino-giapponese vista sempre nel Fuori Concorso di Venezia in Manhunt di John Woo) testimonia l’urgenza di aggiornare i codici del noir asiatico a uno scenario non più confinato in una sola nazione, ma attento a riflettere invece le coordinate di un potere ormai sovranazionale e che fa rima con quello economico globalizzato. Il vecchio Chiang allunga perciò il suo potere sia in Corea che in Giappone e avergli pestato i piedi implica l’inizio di una guerra transnazionale: un espediente che in Kitano è propedeutico al racconto di un orizzonte senza punti di fuga, dove anche le dinamiche dell’ormai consunto onore non sono sufficienti a contenere le spinte egoiste e distruttive della malavita. Per questo, Outrage Coda ha da un lato il classico sapore lirico dello yakuza-eiga, ma dall’altro è ammantato da una cupezza nichilista che rende l’intera progressione un paradigma di morte al lavoro. Pertanto la vicenda è metodica e precisa nel descrivere i complessi meccanismi degli organigrammi malavitosi, le doppiezze, gli inganni e la ritualità autoreferenziale di un mondo che vuole apparire come perfettamente organizzato: ma questa sovrastruttura non fa che ribadire come la direttrice primaria che guida questo mondo sia la pulsione distruttiva. La maschera immota di Kitano diventa quindi l’ideale cartina di tornasole delle contraddizioni incarnate da questo schema, e non a caso il suo personaggio sembra agire animato da una lucida follia: le sue mosse sono viscerali e figlie di un preciso intento vendicativo (nella lotta sono morti alcuni dei suoi uomini), ma il suo agire è imperscrutabile, quasi calmo, somma di istinto e razionalizzazione di un metodo.
Visivamente il film si adegua al latente senso di morte che attraversa l’intera narrazione e si presenta con le consuete geometrie visive dello stile reso celebre da Kitano: movimenti di macchina essenziali (con poche aperture espressivamente marcate) e una perfetta disposizione spaziale degli elementi in campo, quasi una partita a scacchi che nelle linee trasversali delle scenografie riflette ancora una volta la contraddizione di questo mondo perfetto eppure in disfacimento. C’è in ogni caso un certo qual senso di fine dei giochi: se, quindi, il fronte è nuovo e potrebbe perciò offrire ulteriori nuove possibilità di prosecuzione del massacro, le mosse così essenziali e la cupezza dei toni, l’uso insistito dei neri, e quella certa qual pulsione suicida dei personaggi nel portare a termine ad ogni costo la propria missione, istilla il senso di un tempo che è ormai finito. In questo modo Kitano concretizza una pulsione da sempre presente nel suo cinema, ovvero l’impressione di avere a che fare con un mondo d’ombre che attraversa la realtà, dove il tragico e il comico riescono per questo ancora a combinarsi nella maschera del grottesco. Che non è più quello del Kitano più eccessivo e autodistruttivo, ma quella di un autore maturo che ha capito come incanalare queste pulsioni nel racconto della fine di un’epoca. La chiusa appare pertanto così necessariamente dolorosa quanto a suo modo lirica e epica, iscritta fra l’ultimo colpo di pistola e l’ipotesi spensierata di una cena con gli amici di un tempo, mangiando il pesce appena pescato.