Nessuna idea, se non nelle cose, per dirla con William Carlos Williams, il poeta americano che ispira Paterson. Sì, insomma, nessuna idea che non stia nella sostanza della realtà, nella materia di una vita trasfigurata in poesia, nella immanenza del lirismo incarnato nella prassi quotidiana. Paterson, il film, è come Paterson, il personaggio interpretato da Adam Driver, un corpo inclusivo, permeabile alla sostanza delle cose tanto quanto impermeabile alla disfunzionalità dei frammenti. Jim Jarmusch trova la moralità del quotidiano nella via del poeta, che è un po’ come la via del samurai, la retta che unisce la purezza interiore con la semplicità delle cose. In scena c’è la cronologia quotidiana di un autista che giorno dopo giorno, da lunedì a lunedì, si sveglia, saluta la moglie Laura e si mette al volante del bus che taglia le strade di Paterson, New Jersey, città cara ai poeti americani, oggi spazio residuale come quella poesia che invece il protagonista coltiva con la semplicità del gesto connaturato, riempiendo un quaderno di parole che nascono dal suo mondo come allitterazioni in fuga dal vissuto. Il libro delle prime poesie di William Carlos Williams che Paterson tiene a portata di mano ne è l’antefatto, la traccia di un film che si compone nel dolce dispendio di versi quotidiani scritti dal protagonista come un flusso di coscienza delle cose che appartiene al piano della realtà.
Paterson è un personaggio che descrive il tempo di un’astrazione esattamente come tutti i personaggi di Jarmusch: ombre sature di attese ormai esaurite, infine scolpite sul tempo dei luoghi che abitano con perseveranza. Accanto a questo autista poeta c’è Laura, una donna d’arte, meticciato di ispirazioni, ambizioni, espressioni che si concretizzano tra la tela, le tende di casa, i piatti che cucina, la musica che sta imparando a suonare. Di traverso si mette l’immancabile gag dell’istinto, controparte jarmushana classica, che qui si incarna in Marvin, il bulldog inglese di famiglia, che sta in un angolo come un perturbante pronto ad agire per destrutturare l’ordine immutabile delle cose: inclina la cassetta della posta, fa a brandelli il verseggiare del padrone, precipitandolo in un weekend di passione, nel segno della morte e della resurrezione del Bello. Jarmusch, che da sempre manifesta un senso innato della materia poetica, scompone la narrazione in versi che ritornano uguali, nutriti da uno spleen della reiterazione della quotidianità cui non si fatica a cedere. La composizione scenica del film è tutta scritta nella convezione della contrapposizione tra luogo intimo e spazio privato, nella strada che Paterson percorre la sera tra casa e il bar di Doc, luoghi complementari in cui si celebra la disputa tra l’attitudine realistica del protagonista, il suo pragmatismo che risuona di un blues inespresso, e la tensione contemplativa che lo induce ad astrarre la materia della realtà, a disperdersi nell’aura inespressa di un scatolino di fiammiferi su cui verseggiare.