Notte in Kerala, sostanzialmente un incubo on the road perso in un detour infinito e senza vie d’uscita. Nelle traiettorie identitarie dell’India schiantate tra sud e nord, il buio della notte dovrebbe nascondere la fuga a settentrione di due amanti: Durga, una migrante che proviene dal nord, e Kabeer, giovane keralese, stretti nel disperato tentativo di trovare un passaggio per raggiungere la stazione. Vettore narrativo elementare e chiaramente simbolico, su cui il giovane regista keralese Sanal Kumar Sasidharan costruisce Sexy Durga (in Concorso a Pesaro 53), trip sospeso tra il furore allucinato della ritualità induista e la fuga senza uscita dei due amanti persi nella notte. All’orizzonte i bagliori della grande festa religiosa in onore della dea Kali sembrano proiettare nel buio che inghiotte i due fuggitivi l’ira della Dea Madre Durga, mentre gli adepti camminano sulla brace ardente del falò o dondolano in estasi mistica, appesi per le carni ai ganci di un carro in processione. L’altra Durga, quella in carne e ossa, in fuga abbracciata al suo giovane amante è invece tutt’altro che irata: trema come una foglia nel retro del furgoncino che li ha caricati a bordo, guidato da un paio di sbandati, forse trafficanti, forse solo contadinotti un po’ alticci, dall’aria sospetta e dai modi certamente poco raccomandabili, ma tutto sommato di buon cuore, decisi a non lasciare i due fuggiaschi soli nella notte pericolosa. Sasidharan parte dalla sovversione letterale della realtà, il mondo sottosopra nella soggettiva allucinata dei fachiri sospesi al sacro rito, e costruisce un film che è una sorta di imbuto di oscurità in cui spinge e filtra l’intera realtà sociale e individuale di questo scorcio d’India notturno.
La paura, lo scontro, la fuga, le incomprensioni, le lingue e le culture differenti, lo schianto di una realtà che dipinge un paese da incubo, sospeso sulla violenza endemica di una umanità piccola e meschina. I sintomi della follia prodotti dal virus di un mondo senza baricentro, scritto nelle coordinate disperse di una fuga chiusa in una notte prigioniera di un ideale nastro di Möbius: fuggire o tornare, salire o scendere dal furgoncino, avere paura o doversi fidare, minacciare o aiutare, bene o male… Una cosa consegue l’altra, tutto torna su se stesso, in un moto infinito di conversione e inversione, mentre la macchina da presa di Sasidharan segue questo flusso di contraddizioni in pianisequenza articolati, straordinari movimenti leggeri che tentano impossibili vie di fuga verso il buio, l’alto, il cielo, con cameracar a sorvolare la vettura e il destino dei protagonisti. Il buio sovrasta tutto, inghiotte le sagome, i tagli di luce degli scarsi lampioni: un buio accogliente e spaventoso allo stesso tempo, rifugio per la fuga e nascondiglio per le insidie. Ogni incontro è una
minaccia e la salvezza viene da quel furgone che, come in un horror, (in)segue i due fuggiaschi, non dà scampo alla paura che suscita e alla salvezza che offre di volta in volta. Sino all’esplosione psichedelica del finale, accensione cromatica acida di neon nel vano del furgone, trasfigurazione del carro in processione dall’altra parte del film, con i passeggeri che indossano spaventose maschere horror e i due fuggiaschi costretti a fare lo stesso: una scena che piacerebbe al miglior Rob Zombie, in cui Sasidharan frulla ogni elemento del film in un’accensione di oscura follia ancestrale, l’ira e la paura della Dea Durga, femminilità e maternità in fuga da un mondo calato nel buio perenne e senza vie d’uscita.