Professor Marston & The Wonder Women: il fumetto come ispirazione del mondo

Anche un fumetto può e deve essere un punto di vista privilegiato per raccontare il mondo e il rapporto uomo-donna: sembra un azzardo nell’era in cui la “nona arte” è stata derubricata a semplice divertimento per le masse. E lo diventa ancor più se il fumetto in questione non è una graphic novel che rivendica con prepotenza lo statuto d’autore, ma al contrario uno dei popolarissimi “giornaletti” a tema supereroico, creato nella Golden Age of American Comics: Wonder Woman. Nome che oggi evoca i salti carpiati e le color correction bluastre dei cinecomic DC, ma che in altri lidi (la produzione è in questo caso della Sony) diventa lo specchio deformante di una storia così vera da essere straordinaria… Wonder appunto! È quella di William Moulton Marston, psicologo americano, inventore della macchina della verità, ma attivo soprattutto nell’analisi lunga una vita delle dinamiche che legano e attirano tra loro i sessi, presto sintetizzate nella formula D.I.S.C. che rimanda a quattro fasi ben definite (Dominio, Inducement/Desiderio, Seduzione e Condiscendenza). Momenti della vita che si alternano e che nella reciproca interazione definiscono non già l’architettura emotiva che sorregge la società, ma quella che intimamente muove ogni singolo essere, generando infelicità o appagamento a seconda di quanto si riesca ad armonizzarli con le regole della convivenza civile.

 

Marston sceglie la strada più radicale, e analizza i vari aspetti attraverso un ménage a trois che coinvolge la moglie e collega Elizabeth, e l’allieva Olive Byrne e che si basa sull’espressione e l’appagamento totale del desiderio reciproco, anche e soprattutto nelle loro forme più impervie e “scandalose”. Il che, va da sé, scatena la riprovazione della puritana America degli anni Trenta e Quaranta. Naturale valvola di sfogo, capace di parlare a un pubblico popolare dietro la maschera (il costume) dell’intrattenimento, arriva così il fumetto di Wonder Woman, subito però osteggiato dalla censura per i contenuti licenziosi. L’adesione della regista e sceneggiatrice Angela Robinson, attivista LGBT, ma finora distintasi unicamente per l’ultimo capitolo di Herbie, il Maggiolino disneyano, è totale e fortemente empatica verso una visione del mondo audace e capace di sovvertire le regole dell’ordine costituito in nome della felicità data dall’abbattimento delle categorie sociali e sessuali. Di particolare interesse è il metodo, che pur non nascondendo le pratiche bondage cui si dedicano i tre studiosi, è alquanto alieno da cifre pruriginose e carnali, cui preferisce un tono favolistico perfettamente propedeutico a spiegare la genesi di Wonder Woman: rispetto alla realtà storica, infatti, la regista esalta la bellezza dei personaggi, trasfigurandone il precipitato iconico poi destinato a trionfare nelle avventure su carta. L’approccio, in questo senso, risulta a volte un po’ meccanico nel tracciare i parallelismi fra i fatti reali e gli eventi poi confluiti nel fumetto, ma anche sincero nel motivare la cifra ispirazionale di un fumetto che vuole porsi quale nuovo modello per le generazioni a venire. Il che – ed è l’aspetto più dirompente dell’operazione – ricolloca l’eroina disegnata in un circuito virtuoso fatto di creatività e impegno, collegati a doppio filo con l’espressione delle verità interiori, filosofiche e psicanalitiche che da sempre cercano di spiegare le azioni dell’umanità. In pratica l’autentica glorificazione del fumetto quale forma d’arte che nasce da un vissuto assolutamente personale, pure quando poi gioca la carta della trasfigurazione, ammantando il disimpegno di una capacità analitica che affonda le proprie spire nella carne e nei sentimenti del sentire popolare. La Robinson, in questo modo, riesce a ricollocare l’apparente sfasamento di un pioniere rispetto al proprio tempo nel fluire incessante delle battaglie civili che hanno caratterizzato il XX secolo – Wonder Woman come icona femminista e pansessuale – e che a volte hanno dovuto cercare strade collaterali per esprimersi. Dopotutto, il costume di Wonder Woman non riprende forse i motivi della bandiera americana?