Nel 2045 il mondo è già precipitato nel suo futuro apocalittico e Columbus, Ohio, la città con la crescita più rapida è una specie di periferia devastata fatta di container arrugginiti impilati come traballanti grattacieli. Gli abitanti sognano solo di andarsene e la via più facile è quella virtuale, anzi, un vero e proprio universo chiamato Oasis, vorticoso, colorato e plasmato secondo il modello dei videogiochi, ma con una predilezione estetica per la cultura pop anni Ottanta (e dove, non a caso, nei cinema passa Last Action Hero). Per entrarci basta indossare un casco, dei guanti e intentarsi un avatar efficace. Tra Indiana Jones e Ritorno al futuro. Se ci si è mai chiesto come sarebbe un film fatto a quattro mani da Steven Spielberg e Robert Zemekis, Ready Player One potrebbe essere una risposta (e la musica di Alan Silvestri non fa che dimostrarlo). Perché, nel nuovo viaggio immaginifico di Spielberg, tratto dal romanzo blockbuster di Ernest Cline, si ritrovano tutte le ipotesti futuribili dei viaggi in altri mondi più volte percorse nei loro film, avanti e indietro nel tempo, tra la realtà virtuale più spinta e gli strumenti “analogici” di uso comune, a partire da tre semplici chiavi.
Un po’ come nel mito di re Artù con Excalibur, anche qui il giocatore più bravo di Oasis, potrà aggiudicarsi il controllo del regno. E Wane Watts (che Anorak chiamerà ad un certo punto Padawan) si presenta fin dal principio come il predestinato: “Mio padre scelse questo nome perché sembrava l’identità segreta di un supereroe, tipo Peter Parker o Bruce Banner, ma morì quando ero piccolo, come mia madre e… sono finito qui”, dice all’inizio, quando ancora le implicazioni sociali di questo universo virtuale non sono state completamente illustrate e Oasis ci appare come un luogo di pura evasione. Creata dal visionario James Halliday (Mark Rylance geniale e folle come Christopher Lloyd nei panni di Doc/Emmett Brown), dopo la sua morte improvvisa, questa terra dell’immaginazione si è trasformata in un video game in cui i partecipanti lottano per aggiudicarsi l’eredità del geniale imprenditore. Un modo per sfuggire al presente che, però, si trasformerà ben presto in una corsa per salvare il presente. Ecco la poetica politica tanto cara a Spielberg, meno disperata di A.I. o Minority Report, anzi, entusiasta e vitale come tutte le volte in cui il futuro viene affidato ai ragazzi, capaci inconsapevolmente di vedere il mondo con lo sguardo della purezza. Via libera, dunque, al viaggio all’indietro più cinefilo che si sia mai visto, a bordo di una DeLorean DMC-12 un po’ ammaccata, e con in tasca il cubo Zemeckis per riavvolgere il tempo di pochi minuti, ma tutto l’arsenale di combattimento è una spericolata citazione del meglio del cinema anni Ottanta, dall’impareggiabile Gigante di Ferro, a MechaGodzilla, da Gundam alla bambola assassina Chucky. Easter Eggs per scongiurare ogni retorica. Impossibile non trovare altrettanti riferimenti alla realtà di oggi. “Tutto ciò di cui si ha bisogno è l’immaginazione, e questa porterà molto lontano in Oasis. Ma – avvisa Spielberg -, quando si fugge dalla realtà in qualche modo si perde ogni contatto umano reale”. Analisi semplice di questi tempi, ma il regista di Jurassic Park capovolge con astuzia le cose, perché per salvare il reale sarà necessario non abbandonare la finzione, ma aggiustarla, o meglio, raddrizzarne la consuetudine. Inutile eliminare l’oggetto, meglio sarebbe saperlo usare nel modo adeguato. Perché, come dice Art3mis “Non è solo un gioco, si tratta di vita e morte nella realtà”, perché il gioco è stato trasformato nella “più importante risorsa economica del mondo” che ha innescato una guerra per il controllo del futuro, che solo la memoria individuale può fermare.