Sopravvivere alla mancanza, all’assenza definitiva, con la refrattarietà tutta apparente del guscio di tartaruga, della sua pelle grinzosa, spessa, il becco afono; il lento, meccanico ritornare di là dalla spiaggia dopo la perdita irreparabile, quando l’adiacenza, l’attrito affettivo dei corpi si è consumato per forza di cose, nel mare profondo in cui era avvenuto l’innamoramento. Questo il dettato ultimo della Tartaruga rossa: l’Occasione dell’incontro, la tenerezza dell’effusione, la dispersione nel mare del tempo, il figlio risucchiato dal mare proprio dove l’oltrepassamento di quella soglia era stato negato al padre. Ma sono le immagini e i crepuscoli “a cera”, a musica, gli arrossamenti alla fine del giorno, che avvolgono i segni, i tratti come abbozzati dei personaggi; in contrasto con il laconico rifluire della tartaruga rossa nel mare; cioè è il cinema a far emergere il dolore e l’emozione della separazione, che così non si scioglie nel divenire ottuso delle cose, non si dimentica nel nulla, ma feconda il tempo. Esso, in forma d’isola, porterà su di sé i segni di quell’amore e di quella perdita obbligata, se un giorno un altro naufrago capiterà sulle sue spiagge e incontrerà la tartaruga rossa. È grazie a un istante fotografico, un disegno, un colore dopo l’altro, che ciò prende senso, sottratto al meccanismo di dimenticanza della realtà; il film come sopravvivenza miracolosa dentro lo spaventoso oblio del tempo, sintesi e senso lampante del perdersi nel procedere infinito delle cose.
Da quanto la tartaruga rossa fa questo “gioco”? È questa la sua prima volta, il suo primo amore avuto per coercizione e metamorfosi? L’impressione ultima è quella vertiginosa, esemplare di Solaris: il meccanismo di perpetuazione, ripetizione dell’amore, della morte, del dolore, a prescindere dall’individuazione dei corpi (tanto più) naturali; dentro un sogno, un lacerto di pellicola ripetibile all’infinito, in cui ribolle in continuazione la suggestione, la superficie metafisica delle emozioni. Le linee dei volti e dei corpi imbastite da Michaël Dudok de Wit sono abbozzate, minimali, come fossero solo un tentativo di fuoriuscita del segno dall’indistinzione che sta al di qua del mare, là dove per istinto si dirige il figlio ormai adulto e in seguito anche la tartaruga; nella zona tempestosa, come un big bang del cinema d’animazione, da cui era arrivato il naufrago e che aveva poi rigurgitato il maremoto sull’isola. E si traducono in una sensazione di spazio vasto, ostile, dentro il quadro, anzi tutt’intorno alle sagome imperfette raccolte in nucleo, che testimoniano il miracolo dell’esserci, in carne e ossa, in linea e colore, solo in virtù della sostanza, della complessione dell’altro (quello che era Wilson in Cast Away), e come scarto del gruppo dal vuoto, sintomo di quel niente da cui tutto è nato. La famiglia, al riparo di questa minaccia, si raccoglie al centro dello schermo, in una radura erbale dove dorme, circondata dal vuoto vasto, devastante: la spiaggia, il cielo e il mare sempre immobili a perdita d’occhio sono la condizione necessaria al farsi del nucleo familiare che si riconosce per linea di sangue, si ama, si deve lasciare; estasi naturalistica ma allo stesso tempo correlativo della solitudine, della paura della morte, del nulla, cui argine è il volersi (anche a costo di forzare, costringere), il soccorrersi, l’aversi, in qualche modo. Luogo, la vita (ora il fuoco è sulla carne e sulle ossa), in cui si sperimenta la gioia di una passeggiata, il pericolo della caduta, l’emozione dell’apnea, e i genitori scontano la vecchiaia, i figli crescono, vanno via, per legge di natura. Eppure, nella densa astrazione dello sfondo a cera e nelle linee minime, fragili dei volti, i giochi tra padre e figlio tra le spighe, così esatti, fulgidi, come la morte del giorno, il tramonto in riva al mare, dove in presagio della fine lui e lei danzano, si stringono in un respiro trattenuto della musica, e in una farandola di ombre e di colori.