Facciamo che si parte dalla fine, tanto c’è poco da spoilerare. E soprattutto e sicuramente il momento più bello di Futura, il film collettivo di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher che è passato nella nutrita selezione italiana della Quinzaine a Cannes 74. Nel campo lungo di un paesaggio innevato, una bimba si spinge in avanti, in quella tipica corsa fatta di slanci euforici che sfidano la prudenza e di stop repentini che per un attimo ascoltano l’incertezza. La camera riprende senza troppa sicurezza, un po’ vaga e approssimativa, di certo non impostata, un paio di bruschi aggiustamenti di campo a vista per stare dietro ai passi della bambina e della madre, che a un certo punto le corre dietro… Ora non sappiamo a chi dei tre autori sia da intestare questa scena che chiude Futura, ma poco importa saperlo, di fronte a un’opera collettiva che in realtà appare condividere equamente, nel bene e nel male, le responsabilità progettuali ed estetiche. Ci piace partire da qui perché, nella flagranza visiva di questo inserto quasi sbozzato, nel silenzio finalmente raggiunto della parola e nell’idea di scollare la musica, spingendola nelle retrovie sonore della diegesi, come fosse qualcosa di ascoltato invece che fatto ascoltare…, ecco in tutto questo c’è finalmente l’esito che ci si attendeva da un’operazione come questa. Ascoltare, invece di far ascoltare: sarebbe stata questa l’intuizione vincente di un’operazione come Futura, concepita come “un ritratto del Paese osservato attraverso gli occhi di adolescenti che raccontano i luoghi in cui abitano, i propri sogni e le proprie aspettative tra desideri e paure”.
Ma il film si aggrappa piuttosto alla postura plastica dell’ascolto maieutico, ovvero di quell’orecchiare che interroga un po’ retoricamente e un po’ prudentemente, senza quasi mai davvero scardinare le porte alle quali bussa, ma limitandosi ad aprirle con la chiave che già ha in tasca. Il film parte coraggiosamente, a motore già caldo, zigzagando tra i passi incerti dell’anatroccolo adottato da una ragazzina e i tre ruote da corsa elaborati da un gruppetto di ragazzi: sembra tutto uno spiazzamento di sguardi che osservano con curiosità alla pari, ascoltando invece di chiedere… Ma è solo un inizio, perché poi ci si ritrova subito immersi nel fraseggiare fuoricampo degli autori, che espongono le loro intenzioni e senza volerlo – quasi senza darsi scampo – si pongono in primo piano, cavalcando la spinta autoriale di ridefinire sull’oggi un modello indagativo pasoliniano, che appare fatalmente spuntato, se applicato pedissequamente al nostro presente. E allora, se il palleggiare a tre di Marcello, Munzi e Rohrwacher trova un bell’equilibrio stilistico, in una perfetta mimesi con l’approccio figurativo alla scena umana e paesaggistica garantito dalla fotografia pregnante di Ilya Sapeha, nel suo insieme Futura risulta appesantito da un approccio verso la materia che sembra quasi prono, chino verso una generazione che gli autori ci inducono a osservare e comprendere. Il film segue una linea libera da geografie e nuclei tematici, lasciando emergere più che altro una realtà adolescenziale che appare intrisa di una consapevolezza di riflesso, come indotta dalla condizione d’ascolto posta e proposta dagli autori.
La matrice stilistica è quella dell’inchiesta filmata anni ’70 e sembra quasi che l’intera postura dei tre autori sia modulata su un paternalismo didascalico che appare fuori tempo, quasi fosse una scelta finzionale. E che, tutto sommato, dialoga in una maniera pure interessante con la palette cromatica stemperata, con il catalogo sociale di retrovia e con la scansione paesaggistica periferica che i tre autori perseguono con chiara intenzione. È evidente che stilisticamente il progetto cerca quasi di guardare l’Italia di oggi come fosse un Paese fuori tempo, bloccato in uno scenario post rurale e proto industriale eterno. Si tratta evidentemente di un imprinting estetico fornito dalla linea poetica del cinema di Pietro Marcello e di Alice Rohrwacher, esattamente come chiaro è l’apporto di Munzi al capitolo genovese (indubbiamente uno dei momenti alti del film, tra i più veri e meno mediati) col suo allucinante ritorno agli orrori della Diaz che appaiono così lontani dalla consapevolezza di ragazzi che all’epoca non erano nemmeno ancora nati. È in cose come queste che Futura si impone con una linea poetica intensa, libera, interessante soprattutto per la sensazione che lascia di offrirsi come strumento estetico e poetico e come ipotesi politica, ideale. Ma su questo grava il peso preponderante di momenti in cui le parole degli autori così come dei ragazzi risultano troppo dette, gravide di una consapevolezza che dalle domande ricade sulle risposte. Perplessità che gravano sull’opera intensa e determinata di tre autori tra i più intensi e determinanti del cinema italiano contemporaneo, che questa volta sembrano sospesi sulle loro attese. Vien voglia di chiosare con un pasoliniano: “Come sempre la «realtà» è diversa dalle intenzioni”.