Il primo dato che viene in mente sin dalla visione delle prime immagini di Cow – il film, visibile su MUBI, della regista inglese Andrea Arnold, che con questo lavoro approda al cinema documentario – è quello di avere lavorato con lo scopo di assumere, nella massima possibile misura, lo sguardo in soggettiva della protagonista, la mucca Luma, che ridotta a macchina da latte e da riproduzione, nulla conterà più quando le due funzioni della sua esistenza diventeranno non più praticabili e la sua vita antieconomica. L’assunzione della (massima possibile, vale la pena di ricordarlo) soggettiva, resta l’unica modalità per una totalizzante, ed anche empatica, immersione in quella registrazione della vita di Luma che, appesantita dal latte o dalle ripetute gravidanze, ci fa scorgere attraverso i suoi occhi-telecamera e quel vetro insuperabile che è la macchina da presa – che diventa vero occhio scrutatore – ma che più di tanto non può e, forse, più di tanto neppure deve. Se si cerca di restituire una possibile catalogazione al rapporto che il cinema intrattiene con gli animali, si arriva, salvo integrazioni, a tre diversi tipi. Il primo più frequente e immediato è quello divertente. Gli animali diventano fenomeni naturali dotati di intelligenza e sensibilità inimmaginabile. Un atteggiamento che arriva fino agli estremi dell’umanizzazione disneyana e le successive che sempre da quella derivano. Un secondo approccio è quello che vede nella bestiolina domestica un essere appassionatamente sensibile. Solitamente in questi casi l’animale ricopre un ruolo salvifico e parzialmente determinante nell’economia della storia, ma la sua scomparsa annunciata sin dal suo primo apparire lo condanna ad una fine dolorosa, ma catartica e necessaria. Il terzo tipo è quello che prevede l’osservazione del mondo animale. In queste occasioni lo spettatore è portato ad umanizzare l’animale, che può anche essere una bestia feroce da abbattere, ma in ogni caso la macchina da presa si limita ad osservare e registrare. L’umanizzazione porta lo spettatore ad assumere gli atteggiamenti e i comportamenti animali, all’interno di una categorizzazione dell’umano in una sostanziale parità. Un film che ha lavorato in questo senso, tanto per fare un esempio senza guardare al cinema horror è Gunda del russo Victor Kossakovsky.
Giusto per completezza, un quarto atteggiamento, il più eticamente discutibile, è quello di chi utilizza l’animale per un sensazionalismo ruffiano, dimostrando un cinismo che dovrebbe essere premiale e che invece infrange le regole del rispetto e dello sguardo eticamente accettabile. Ulrich Seidl con il suo Safari del 2016, Giuseppe Tornatore con il suo Baaria del 2009, Rolf de Heer con Bad Boy Bubby del 1993, ma anche altri registi si iscrivono a questa categoria. Per inciso nel primo film citato Seidl, che riprende la cosiddetta caccia grossa ad opera di ricchi cacciatori che uccidono elefanti e giraffe, pone la sua mdp dalla parte del cacciatore e, quindi, wellesianamente sceglie un punto di vista preciso, con buona pace della retorica animalista che il film vorrebbe spargere; Tornatore e De Heer nei loro rispettivi film uccidono davvero gli animali (un bovino e un gatto) sul set per una incomprensibile (e inaccettabile) adesione ad un realismo del quale molti farebbero a meno. Molti altri sono stati i casi in cui il cinema si è servito della morte o del maltrattamento degli animali. In rete sono reperibili numerosi elenchi di titoli e di autori dai nomi insospettabili. Ciò detto, invece, Andrea Arnold si relaziona con una ulteriore ipotesi quella dello sguardo autoctono e Luma diventa la narratrice della sua stessa vita e in questo i due esempi che vengono in mente sono quello più direttamente coincidente con questa scelta, l’incipit di Bella e perduta di Pietro Marcello, poi leit motiv del film, con lo sguardo del bufalo che diventa anche inizio e manifestazione del mito oltre che sguardo onnisciente sulla condizione umana. L’altro esempio, meno calzante vista la grandezza dell’Autore, ma assimilabile, è quello di Au hasard Balthazar di Bresson. L’asino Balthazar vive la stessa rassegnata condizione di Luma e allo stesso modo il suo percorso di vita resta carico di dolori inespressi con voce umana, ma leggibili negli occhi dei due protagonisti. La differenza, per citare Paul Schrader, sta nella trascendenza di Balthazar e nella terrena consistenza di Luma.
D’altra parte Luma non è sapiente come il mitizzante bufalo, ma è sensibile agli scossoni della vita come Balthazar. È per questo che ci rende consapevoli e partecipi, con i suoi muggiti disperati del dolore per l’allontanamento del suo vitellino appena nato o con i suoi sguardi carichi di controllato panico per i sentimenti d’angoscia, di paura o di smarrimento che prova durante le notti stellate nel suo recinto che dovrebbe essere protettivo. Poi c’è il rapporto con gli umani, personaggi secondari e solo comparse tanto appena si intravedono nei limiti dell’inquadratura. Nel loro inconscio vedono in Luma una macchina riproduttiva di beni di consumo, fonte di ricavi e ingombro nel momento della conclusione del ciclo. È un rapporto di assoluta proprietà, che va perfino al di là di ogni dominio anche biblicamente inteso. Su questo lo sguardo di Arnold è preciso e spietato. Lo sforzo di consegnare al cinema la visione di Luma sembra gettare un’altra luce sui personaggi umani, relegandoli, paradossalmente, ad un mondo estraneo, quasi dissonante con quello dentro il quale ci fa vivere la mucca attraverso la protesi della macchina da presa di Arnold.Andrea Arnold, dunque, compie un’operazione diametralmente opposta a quella di Seidl che in definitiva, avvitandosi sulle sue stesse intenzioni, mette in scena proprio il dominio dell’uomo senza neppure la questione economica di mezzo. Le immagini di Cow contengono il racconto di questa condizione animale, di esseri soggiogati al dominio umano, quello stesso che con ineluttabile sentenza decide il destino anche di Luma.