Nonostante faccia di tutto per apparire smart, aggiornato e brillante, flamboyant e irriverente, c’è qualcosa di vecchio, stantio e ripetitivo nel film di Guy Ritchie, qualcosa che somiglia alla boria adolescenziale saputella e sbruffona dei suoi personaggi, come se si trattasse di un ragazzino mai cresciuto, o male invecchiato, che voglia fare mostra della sua brillante sfrontatezza riproducendo un sapere formulaico e presuntuoso come fosse puro guizzo di genio. Ma non basta rimaneggiare con destrezza un materiale postmoderno e post-tarantiniano, fatto di argute divagazioni ed effetti speciali narrativi, citazioni smaccate e false piste ironiche, per sfornare un prodotto originale e sensato, con qualcosa da dire, che non porti con sé uno spirito fine novecentesco un po’ posticcio, con spruzzate gratuite di anni 70, 80 e 90, sotto qualche maschera (o mascara) di contemporaneità nostalgica, che risulta un trucco irrimediabilmente datato. Fumo negli occhi, per stare al tema conduttore, telefonato fin dai titoli di testa alla 007, inficiato da un manierismo capace forse di attrarre schiere di epigoni (ahinoi), ma che diventa, alla fine, tristemente epigono di se stesso.
Come il protagonista del suo film, il gangster gentiluomo di origini yankee Mickey Pearson, al quale fornisce il volto imbolsito e stolido di un Mathew McConaughey in fase calante, il regista ci ripropina dunque la sua droga leggera, ma l’effetto è necessariamente più scarso, e crede forse, anche lui, di fare il colpaccio, incassare e andarsene in pensione. Vive di rendita immaginaria, dunque, un film che spaccia colpi di scena a buon mercato, coltivati in territori finto underground, serviti da storyteller auto-compiaciuti e manifestamente inaffidabili: il private eye Fletcher (Hugh Grant mellifluo e ricattatorio che pare vendicarsi della rapacità cinica e impicciona dei media) è la voce narrante prevalente, invadente e provocatoria, un concentrato gigionesco di prosopopea slang, facili allusioni erotiche, battute politicamente scorrette e strizzatone d’occhi metacinematografiche. Così questa parabola del re della giungla in via d’imborghesimento perde ogni sua potenza ferina, ed è abitata da personaggi-funzione, di grana fumettistica e profondità da macchietta.
Ed è quasi inutile stigmatizzare, come la critica d’oltreoceano s’impegna pure a fare, sessismo e razzismo delle battute di questa “danza di maschi alpha” (con un femminile relegato a stereotipo d’emancipazione maschio-imitativa), con le quali Ritchie si diverte a stuzzicare la sensibilità dello spettatore corretto. Il cinema di Ritchie incorpora preventivamente la critica, con disamine di un supposto insulto razzista (il personaggio del Coach di Colin Farrell è quello più riuscito e protagonista di questo “raffinato” esercizio retorico) o elevate quanto pretestuose disquisizioni sull’etica situazionale per distinguere i business criminali. Ecco che omofobia, razzismo, antisemitismo e sessismo (neri, cinesi, ebrei, omosessuali in ecumenico rispetto) sono elargiti per épater, ma disinnescati sul filo di un’ironia che si diverte a rigirare la frittata e mischiare le carte, mettendo insieme senza talento Shakespeare e il fight-porno, Black Mirror e La conversazione di Coppola, James Bond e Shylock, con gusto della provocazione e della prevaricazione semantica, ma senza la vera potenza dello scandalo. Il discorso appare allora solo un giocattolo da esibire, intrattenimento narcisistico, meccanismo labirintico d’incastri che, poiché privo di vero stile (nonostante il wishful thinking del titolo), invece di dare corpo e sostanza a un vuoto o a un enigma (come avviene nei Coen o in Mamet), lascia solo una sensazione di puerile, un po’ rozza inutilità.