«Tutte le famiglie felici di assomigliano fra loro,
ogni famiglia infelice è infelice a modo suo».
Lev Tolstoj, Anna Karenina
Per la festa del Ringraziamento Brigid (Beanie Feldstein) e il fidanzato Richard (Steven Yeun) hanno invitato la famiglia di lei nell’appartamento newyorkese dove si sono appena trasferiti. Il padre Eric (il sempre magnifico Richard Jenkins), da 28 anni responsabile della sicurezza in un liceo cattolico a Scranton, Pennsylvania, la madre Deirdre (Jane Houdyshell), impiegata da una vita in un’azienda, attiva nel volontariato e costantemente in lotta con la bilancia, la sorella Aimée (Amy Schumer), malata cronica e con il cuore spezzato da una recente separazione e la nonna Momo (June Squibb), affetta da demenza senile e costretta in carrozzella. Come spesso succede la riunione di famiglia sarà l’occasione per far venire a galla tensioni e non detti. In The Humans (su MUBI dal 12 agosto) Stephen Karam porta sullo schermo la sua pièce – insignita nel 2016 di quattro Tony Awards (miglior opera teatrale, miglior attrice non protagonista alla Houdyshell, miglior attore non protagonista e scenografia) – e realizza un capolavoro a partire dai titoli di testa. Il cielo di New York viene percepito dal basso attraverso gli spiragli che lasciano intravedere i palazzi, formando un caleidoscopio rovesciato che trasmette un’oppressione inquietante che sarà il tratto distintivo di tutto il film.
Inquietudine che viene amplificata dalla casa, vero e proprio personaggio, che sembra viva e si presenta fatiscente, con macchie di umidità che trasudano orrore, pareti scrostate, tubature che stridono, fili della luce che penzolano, lampadine che saltano, muffa che imperversa sulle pareti, sanitari che cadono a pezzi, stretti corridoi che paiono ulteriormente restringersi per soffocare, finestre che affacciano su un cavedio oscuro in cui rimangono intrappolati piccioni che perdono piume, presenze che sembrano osservare dall’esterno, sussurri e brandelli di conversazione che si rimandano da un locale all’altro, rumori molesti dai piani superiori e locali caldaia che ricordano un macello. Una casa degli orrori, strutturata su due livelli, in cui si percepisce una minaccia incombente che è tutta psicologica e che ha a che fare con sensi di colpa e rimorsi, recriminazioni e confessioni. Un vero e proprio antro infernale da cui alla fine, a fatica, si esce a riveder le stelle.
Mettendo a confronto generazioni diverse Karam realizza un dramma familiare con venature horror, in cui affronta il trauma post 11 settembre, i cambiamenti nel mondo del lavoro (Deirdre deve rendere conto a due capi ventenni) e la sua precarietà, la religione (le figlie la rifiutano, ma rimane un appiglio fondamentale per i genitori nonostante il tradimento del codice morale), le mode del momento (il cibo biologico, la psicoterapia come soluzione per tutti i mali), la malattia e la solitudine, ma soprattutto l’illusorietà del sogno americano (ben esemplificata dal caminetto che non è altro che una proiezione), riuscendo a far immedesimare lo spettatore di volta in volta nella fragilità di ogni personaggio. E se, come racconta Richard, «le storie dell’orrore per i mostri di un altro pianeta sono gli umani» (The Humans, appunto), l’opera prima di Karam sembra dimostrare, mettendo in scena conflitti, rinunce, errori, sogni, aspettative, dolori che fanno parte della vita di ogni giorno che, come diceva Sartre, davvero «l’inferno sono gli altri». Perché è sempre una questione di punti di vista.