Gli Sparks sono un duo Pop(Art)Rock californiano formato dai fratelli Ron e Russell Mael che, come la voce off di Julia Markus all’inizio del documentario di Edgar Wright, «sono una band che puoi cercare su Wikipedia e non capirne nulla». L’incipit artistico dei fratelli Meal è quanto di meno musicale immaginabile: un mix di amore cinefilo per la Nouvelle Vague e semi-professionismo nel Football Americano. In oltre quarant’anni di carriera gli Sparks hanno prodotto 25 album con più di nove formazioni diverse e hanno partecipato a una serie di progetti transmediali, tra cui un film musicale non realizzato con Jacques Tati, un adattamento manga fallimentare con Tim Burton, la radio opera The Seduction of Ingmar Bergman e il recente Annette di Leos Carax. Dopo un inizio di carriera proto-Glam Rock sancito dagli album Sparks e Kimono My House, gli Sparks sono stati i grandi iniziatori della New Wave e dell’uso massivo dei sintetizzatori, in particolare con l’album No. 1 in Heaven prodotto da Giorgio Moroder; hanno saputo fornire suggestioni cabarettistiche e performative in epoche dove il formato video non era la veicolazione più importante per un prodotto musicale e hanno offerto incursioni dadaistico-terroristiche in varie trasmissioni televisive (celebre il concerto a Top of the Pops che generò scandalo per il look hitleriano/chapliniano di Ron) capaci di mandare in cortocircuito l’intera industria dell’entertainment. Il duo californiano è stato uno dei più importanti punti di riferimento per una molteplicità di musicisti di generi diversi tra cui New Order, Sonic Youth, Red Hot Chili Peppers, Faith No More, Duran Duran, Beck e Björk (tutti intervistati da Wright in un plumbeo bianco e nero).
Lo status degli Sparks è quello della band di culto, poco conosciuta ma seminale, come sottolinea Beck in uno dei momenti finali del film: «Ci sono band che spargono dei semi e che generano idee che crescono in altri posti. Come il corollario naturalistico per cui non si sopravvivrebbe senza le api, così gli Sparks svolgono lo stesso ruolo nell’ecosistema della musica: hanno dato origine ad altri gruppi che probabilmente non sanno nemmeno di provenire da quell’albero genealogico e di dover [agli Sparks] le proprie sonorità». Ma non sono la intuizioni melodiche del duo californiano a interessare lo sguardo di Wright, la cui passione musicale, per chi ne ha frequentato la filmografia, è al limite del feticismo musicofilo, bensì il corpus performativo del duo: i loro continui ammiccamenti all’immaginario cinefilo (i fratelli Marx, Chaplin, Godard, Bergman) e il ricorso a strategie narrativo-commerciali provenienti dalla settima arte e dai fumetti (come ben testimonia l’analisi dello storytelling del LP Propaganda da parte di Neil Gaiman). Il rapporto circolare tra cinema e musica nel percorso artistico dei fratelli Mael, e la loro specularità – fatta di richiami, proiezioni e sdoppiamenti – è la base dell’intera operazione di Edgar Wright. Se il documentario biografico nell’era dei colossi dello streaming è diventato uno dei generi più prodotti (statisticamente più del 40% delle produzioni attualmente in streaming) in un formato in serie in cui si appiattiscono perfino le differenze di profondità tra Noah Baumbach e Alex Winter, o culturali tra Vincenzo Muccioli e Osho. Wright in assonanza con i suoi protagonisti e il loro lavoro terroristico nella pop-music, matura una continua e silenziosa sovversione del genere un passo alla volta.
La prima ovvia differenza è che gli Sparks non sono Amy Winehouse, Frank Zappa o Bob Marley non hanno una fanbase enorme, la loro carriera quasi sinusoidale ha sempre rifiutato la possibilità del successo in maniera anticlimatica. In un alternarsi tra riconoscimento e oblio la parabola artistica del duo non appartiene alla comune costruzione narrativa dei documentari di un Asif Kapadia, vero gold standard del docu nell’era di Netflix. Se Senna (2010), Amy (2015) e Diego Maradona (2019) usano il materiale d’archivio in un costrutto narrativo (poi copiato in decine di altri prodotti) che vede il successo come una sorta di trasfigurazione finale, quasi un obiettivo ultraterreno che si paga o con la morte o con la caduta negli abissi della tossicodipendenza, gli Sparks ribaltano questo paradigma allontanandosi dalle scene ogni volta che si avvicinano alla fama. Il found footage nel caso di The Sparks Brothers offre quindi a Wright la possibilità di lavorare non a livello narrativo ma esplorativo. Il corpo mostrato sulla scena da entrambi i fratelli, soprattutto la presenza difforme di Ron, diventa l’oggetto di un’indagine sull’apparire, sulla possibilità del perturbante di detonare nello scenario rassicurante dell’immaginario pop-televisivo. In un gioco di specchi in cui gli Sparks, che hanno sempre lavorato dentro i meccanismi dell’industria musicale mainstream, offrono un riflesso a Wright per la sua filmografia, The Sparks Brothers sembra quindi aprirsi a una riflessione sulla possibilità di provocare dentro la prassi produttiva dell’industria dell’intrattenimento. Il continuo soffermarsi sugli sguardi in camera, quasi da automa, di Ron mentre con i suoi baffi da Chaplin-Hynkel-Hitler suona la tastiera nei vari concerti rompe la quarta parete e domanda direttamente allo spettatore quale sia il senso stesso dell’esibirsi, del creare un prodotto artistico (musica o cinema che sia), del vivere stesso. Come affermano testamentariamente i versi della loro hit più famosa: «They will just say who are you / Is that a question or not, and you see that the plot / Is predictable, not new/ But you’re still stunned at the things you will do».