Torino 38 – La rivoluzione siamo noi di Ilaria Freccia e l’indomabile fiamma dell’arte

Folgorante l’inizio di La rivoluzione siamo noi (Arte in Italia, 1967/1977), da un’idea di Ludovico Pratesi e Ilaria Freccia, diretto dalla stessa Freccia: scritte rosse su sfondo nero dalle quali emerge un Michelangelo Pistoletto b/n che spiega in poche e puntuali parole l’origine dell’arte stessa, il gesto artistico e sociale per antonomasia, quello del primo essere umano che nelle grotte di Lascaux impresse la sua mano sulla parete. Una mano, molteplicità di mani: arte – società – politica.
1968, Biennale di Venezia: gli artisti coprono le loro opere per protesta.
1968, Amalfi, l’anti-Biennale: l’importante è l’atteggiamento. I materiali sono quelli che trovi, metodi mentali per poter vedere la realtà e la vita, sostiene Alighiero Boetti.
È emozionante vedere Germano Celant, da poco scomparso lasciando una voragine incolmabile nel mondo dell’arte contemporanea italiana, spiegare come l’interesse dell’Arte Povera investa i processi e non gli oggetti artistici. L’oggetto è mercificabile. Ciò che l’artista pensa no. L’Arte Povera non è minimale, è radicale, sostiene nuovamente Pistoletto.

 

 

1967, il fermento torinese: Anselmo, Merz, Paolini, Prini e Penone, nelle parole del gallerista Tucci Russo. Carl Andre nelle parole di Gian Enzo Sperone. La libertà fotografica di Paolo Mussat Sartor ci riempie gli occhi di bellezza. Andare nei campi sperando di portare a casa un disegno dei campi senza dover imitare il paesaggio dell’Ottocento. Mettere l’opera in movimento perché l’idea è più importante del manufatto. L’arte viene fatta perché non esiste, mentre le montagne vengono scalate perché esistono.
1970, Milano: l’opera d’arte è azione che coinvolge gli spettatori. Christo impacchetta e avvolge il monumento a Vittorio Emanuele e poi quello a Leonardo Da Vinci. Scioperanti occupano il monumento demitizzato.
1968, Roma: gli artisti si esprimono in maniera innovativa nel Teatro delle Mostre, alla Galleria La Tartaruga. Nasce la Performance Art. Esplodono Kounellis e Pascali: l’artista pugliese sega la terra, taglia l’acqua con le forbici. Gesti impensabili, ora come allora. Una sperimentazione ben vista a mal vista, al contempo, da cui sgorgano elementi totalmente nuovi. Lo spazio che diventa opera d’arte. Spazio installativo e performativo. Spazio non più destinato esclusivamente a oggetti immobili, ma spazio per oggetti mobili, per esseri umani e per animali: ecco i cavalli di Kounellis. Il contenitore che orienta il contenuto. E poi arriva l’invisibilità di De Dominicis.
1969: proiezioni su corpi. Movimenti che non obbediscono a criteri estetici. Allagamenti formalizzati.
1974: l’abbandono dello spazio museale è ormai prassi. Si espone in un garage, in un parcheggio sotterraneo, all’insegna dell’interdisciplinarietà.
E poi ancora la body art, rasoi che diventano matite, corpi che diventano tele. Le emozioni che questo film è capace di suscitare spaziano dalle testimonianze di azioni storiche come quelle appena descritte, all’intimità di frame brevissimi che ritraggono Andy Warhol mangiare una mozzarella a Napoli o Joseph Beuys, lo sciamano rivoluzionario, affacciarsi sulla Terrazza dell’Infinito di Villa Cimbrone a Ravello. L’arte è una fiamma da proteggere e questo documentario risulta assolutamente imprescindibile, tanto per gli addetti ai lavori, quanto per i neofiti che magari, più di una volta, di fronte ad un’opera di arte contemporanea hanno ingenuamente pensato “… questo potevo farlo anch’io”.

 

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