Terzo lungometraggio dell’iraniana-americana Natasha Kermani (Imitation girl, Shattered), scritto insieme alla protagonista Brea Grant, Lucky è un film che fa leva sui codici dello slasher per distaccarsene con consapevolezza e rivelare con fermezza la sua identità tesa a denunciare un clima culturale sempre più immerso in una surreale e tragica condizione in cui la donna è vittima dell’indifferenza. May Ryer, autrice di successo di manuali di auto-aiuto, una notte viene aggredita da uno sconosciuto mascherato che fa irruzione nella sua abitazione. In preda allo shock May non riceve supporto né dal marito Ted, presente al momento dell’aggressione ma sostanzialmente indifferente, né dal poliziotto che la convince a ritenersi fortunata per essere ancora vita. Ma l’aggressore torna alla sua porta terrorizzando May sempre più sola e incompresa. C’è una freddezza diffusa che permea le atmosfere di Lucky, titolo beffardo che subito invita lo spettatore a fare i conti con una forza (la fortuna) inafferrabile che si sbarazza delle responsabilità: se ti va bene, non è merito tuo. Gli spazi e gli oggetti sembrano determinati da costanti cromatiche che ne rivelano l’assoluta distanza e inospitalità: gli azzurri lividi che invadono le inquadrature (dalla tenue camicia di May, alle intense pareti della cucina della sorella di Ted) coniugati alle tonalità chiare dei bianchi e dei grigi (i vetri, gli specchi, il cielo di giorno) contrastano le ombre e l’oscurità della notte ricreando quel senso di ambiguità surreale, macabra ironia e fatale inquietudine che manifesta l’inevitabile frattura di senso racchiusa nell’incubo che travolge May, abbandonandola al suo destino.
Ma c’è di più. Sciogliendo gli ingranaggi dello slasher, senza ribaltarli ma offrendone in maniera compiuta e schietta una declinazione moderna, Natasha Kermani punta lo sguardo verso il ritorno dell’identico, la ripetizione della banalità, l’ostilità del familiare, autentiche minacce subite dalla protagonista alle prese con una presenza reale, corrosiva e ingombrante che si ripresenta quotidianamente nella sua vita. È un male incarnato, non solo un fantasma della mente e nemmeno un’allucinazione sghemba e paurosa, bensì uno stalker dal volto coperto da una maschera di cera che ricorda il Mads Mikkelsen di Hannibal: un corpo intruso che viola il confine, nell’indifferenza di tutti, incapaci di guardare, cogliere il senso, di ritrovare una traccia, di ricomporre una visione di insieme perché chiusi dentro schemi e formule convenzionali (come in Unbelievable di Susanne Grant), abbagliati da altro. L’intruso, epifania dell’identico che si ripercuote sulla dignità di May, come un’aria viziata non esce dalla sua vita, è quindi la causa reale e vera della deriva di una società in cui, suggerisce la regista, bisogna cavarsela da sole e lottare finché «Non c’è un senso, non c’è una salvezza» perché, in fondo, la fortuna non esiste.