Transizione e metamorfosi: The Animal Kingdom di Thomas Cailley

Mentre si prepara per fare colazione, il capo scout Randy Ward (Norton) apre l’ultimo numero dell’Indian Corn e incontra con lo sguardo un articolo intitolato Are we Men or are we Mice? scritto dal Comandante Pierce (Keitel); da lì a poco si renderà conto che all’appello mancherà il sovversivo Sam Shakusky (Gilman), fuggito dal campo per ritrovare la sua amata Suzy (Hayward). Siamo nei primi minuti di Moonrise Kingdom di Wes Anderson, film di variazioni e intrecci a proposito di avventure amorose, scontri generazionali e trasformazioni; e in un cinema costellato da figure bestiali come quello di Anderson (è animalesco fin dai titoli ma soprattutto nella caratterizzazione dei suoi personaggi) non meraviglia il fatto che, proprio in un film come Moonrise Kingdom, lucidissimo e disincanto nel fotografare la complessità e la vischiosità dell’adolescenza, peraltro in cui si cita in modo esplicito il romanzo di Steinbeck, la sequenza più carica e impattante veda l’audace Sam intrufolarsi nel camerino dell’amata Susy intenta a prepararsi per la recita scolastica, chiedendole: «What kind of bird are you?». Suzy è un bellissimo corvo; Sam invece sulla giacca ha la scritta “pigeon”. Anderson giocava con i ruoli bestiali suggerendo che l’identità, come un libro aperto, è scritta intorno a scelte che direzionano verso la libertà.

 

 
Al suo secondo lungometraggio, il francese Thomas Cailley segue il solco tracciato da questa bestialità intrinseca osservando l’essere umano a cominciare proprio dal dialogo che esso instaura con la libertà, rivelandone un lato sempre esposto, costretto, vincolato, al centro di un confronto teso e esasperato con natura e impulsi che ne definiscono il peso e la forma, il senso e la profondità. Ma se Anderson declinava il suo discorso a partire dalla volontà dell’individuo che si ribellava a un sistema opprimente di regole, ottusità e convenzioni, Cailley spinge il suo film in un’altra dimensione meno controllabile e meno definibile, più vulnerabile e sofferta. Infatti, non è un caso che il suo The Animal Kingdom esplori le conseguenze di cambiamenti non voluti e inevitabili, di improvvisi scossoni relazionali a cominciare da un luogo chiuso. L’interno dell’abitacolo dell’automobile in cui si trovano Francois (Roman Duris), il padre, e Émile (Paule Kircher), il figlio, bloccati nel traffico cittadino, mentre si recano all’ospedale per trovare la madre ricoverata perché affetta da un virus che ne scatena mutazioni improvvise e spaventose, è lo scenario di partenza che raccoglie tre istanze narrative che verranno dipanate nel corso del racconto: la condizione di costrizione che accomuna Francois e Émile, entrambi messi di fronte allo shock emotivo di non-vedere-più-in-quel-modo la donna che è moglie e madre; lo scontro generazionale tra padre (protettivo e fissato con le regole) e figlio (con la pretesa di autonomia e responsabile); l’incontro con il mistero inteso nella sua più ampia definizione di qualcosa di estraneo che riempie di stupore la vita.

 

 
The Animal Kingdom punta lo sguardo verso quello che è al di là della sfera usuale, del comprensibile, del familiare, qualcosa che rimane nascosto, che è assolutamente fuori dall’ordinario osservato da molteplici punti di vista: il mistero della vita, della crescita, dell’amore. Il senso del film è tutto contenuto in questa lunga scena iniziale che si conclude con l’evasione dall’ambulanza dell’uomo-uccello Fix (Tom Mercier), uno degli uomini bestia che abita il mondo. Una fuga guardata, ammirata, temuta da Émile anch’egli in cerca della sua libertà, fuori da quell’abitacolo. Diversamente dal regno proposto da Anderson, dunque, quello del film di Cailley è un regno-mondo che offre allo spettatore la possibilità di guardare dalla prospettiva che più gli appartiene: è un inseguimento di sguardi che dischiude una fitta trama di contrasti e opposizioni, dove natura e cultura s’inseguono e si scontrano e in cui le risposte volutamente non arrivano, non tutte almeno. Non sappiamo esattamente cosa affligga il pianeta così come non sappiamo esattamente come collocare questo film dalle linee sghembe, senza contorni ricalcati, senza etichette. Forse il punto è proprio questo: smontare certe categorie e riabilitare attraverso una fantasia concreta un immaginario cinematografico dimenticato e perduto.

 

 
Seppur lecita, resta debole l’analogia con il periodo pandemico perché pare evidente come a Cailley interessi mostrare una transizione che è drammatica per chiunque ne sia consapevole, tanto dal punto di vista di Émile quanto dal punto di vista di François o di chi si trova a fare i conti con questa metamorfosi, che è dell’altro ma è sempre nostra quando incontriamo davvero l’altro, come è nel caso della poliziotta Julia (Adèle Exarchopoulos) o della ragazza che si innamora di Émile, che non vede ma ha capito. Sono tutte figure in bilico, personaggi collocati sul sottile filo che separa libertà e smarrimento, salvezza e dannazione, come d’altra parte è in bilico il film stesso, ibrido e sfuggente: abbraccia i codici dell’horror-fantasy ma strizza l’occhio alla fantascienza distopica; entra nelle pieghe dello scontro generazionale ma non manca di contemplare le possibilità del teen drama classico, del romanzo di formazione e del feel good movie, raccontando di un’amicizia che porta i soggetti a non consumarsi ma a rispettarsi e donare reciprocamente la libertà attraverso la cura e la solidarietà; si immerge in una fitta foresta che richiama il cinema di frontiera che mescola fiaba ecologica e dramma familiare, e per questo è un film politico a tutto tondo. «Per me la coesistenza di dramma e commedia, azione e contemplazione, intimità e spettacolarità – ha dichiarato Cailley – rende il film più inaspettato e vivo. Questo mix di generi è alla base della mia passione per il cinema. In termini di riferimenti, mi sono rifatto a Un mondo perfetto di Clint Eastwood e Vivere in fuga di Sydney Lumet, così come a Thelma & Louise di Ridley Scott e The Host di Bong-Joon Ho. Sono film porosi, costruiti attorno ai loro personaggi, che privilegiano l’emozione e si svincolano dal genere (la fuga, il thriller) per offrire uno spettacolo totale».

 

 
E se questo accumulo potrebbe far sorgere il sospetto di un qualunquismo formale e narrativo, vale la pena considerare l’ipotesi che a Cailley interessasse proprio raccontare una realtà sporcata da immagini provenienti da altri mondi, una realtà sempre meno controllabile come le sue bestie impaurite, selvagge e sole, sempre meno comprensibile e afferrabile. La macchina da presa di Cailley esalta la sceneggiatura scritta insieme a Pauline Munier mostrando un impulso vitale, violento e generativo che traduce l’idea della mutazione uomo-animale da un punto di vista fisico, concreto, attraverso i corpi dei personaggi tumefatti e trasformati un po’ come accadeva al protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e, in modo ancora più assoluto, per certi versi, come si narrava nel mito di Dedalo e Icaro. The Animal Kingdom è un film pieno di vita, come attesta il finale: ancora in auto, ancora padre e figlio, ancora in fuga ma, questa volta, con la libertà all’orizzonte, in cerca di un’altra vita, senza nascondersi come topi, sicuramente in cerca della propria umanità.