Una certa malinconia della felicità. Il film del giapponese Kore-eda Hirokazu sorprende per dolcezza, sensibilità, rigore e sobrietà. Il primo film del concorso di Cannes porta lo spettatore in una dimensione cui siamo poco abituati, tra famiglia e vita quotidiana, allargando, però lo sguardo via via che si procede, legando l’istante ad un sentimento universale. Come raccontare la storia di tre generazioni restando legati alle piccole cose di un presente instabile, ma pieno di regali. Come descrivere la vita con la semplicità disarmante del vivere. Umimachi Diary (Our Little Sister recita il titolo internazionale) è tratto dal manga di Yoshida Akimi e ricorda Piccole donne. Di quel romanzo generazionale (e dei film che ne sono stati tratti) conserva il modo comune di raccontare una famiglia atipica e sbilanciata, che gioca lungo la linea temporale del passato-presente-futuro con tutte le carte possibili dell’ottimismo. Siamo, dunque, nel territorio da sempre analizzato dal regista giapponese: la famiglia e le sue disfunzioni, qui straordinariamente rappresentate attraverso i ripetitivi momenti conviviali che uniscono le quattro protagoniste e tutti i personaggi che ruotano loro intorno. Tre sorelle ventenni vivono insieme in una vecchia casa nella bella città di Kamakura. Sia padre che madre se ne sono andati molti anni prima, attratti da altre storie, lasciando, come sempre in Kore-eda, un’eredità difficile da portare, oltre ad una sorella più piccola fino ad allora sconosciuta. Si pensa a Nobody Knows, ma senza il dramma che incombe, anche se il senso di abbandono e il silenzio hanno avuto gran parte nei pensieri delle sue protagoniste. La differenza, però, sta nell’aver scelto una storia di sole donne, che non inizia e non finisce, come se la macchina da presa del regista avesse incrociato quest’avventura per il tempo necessario a farci entrare in un microcosmo quasi magico.
Una storia “enorme” raccontata con rara semplicità di sguardo, capace di accennare ai conflitti e passare oltre, attraversando, giorno dopo giorno, i gesti e i sapori di sempre. C’è sempre una storia dietro ogni piatto, o un sapore nel ricordo di una persona lontana, e quindi una tendenza ad andare oltre e un invito a vivere in profondità ogni istante. Un modo antico di rappresentare il tempo, che cerca la pace che il tempo sa racchiudere nei cibi. Tesori di famiglia, verrebbe da dire, che generano parole, sorrisi, riflessioni, omaggi (e alcuni di essi stanno chiusi in ripostigli segreti sotto il pavimento). Ai cibi si affidano i ricordi e, grazie ad essi si rafforzano o si creano i legami. Eppure l’attenzione di Kore-eda sembra completamente dedicata al presente. Come si rinnova il presente ad ogni istante? Quali tracce restano nell’istante successivo? Le risposte sono molte, ma tutte visibili e concrete, eppure impalpabili e difficilmente spiegabili. Perché l’abilità più grande del regista di Tale padre, tale figlio sta nella leggerezza con cui la vita sa essere misteriosa e facile al tempo stesso.