Dichiara Tristan Séguéla, regista di Un uomo felice, film presentato in anteprima al Festival de l’Alpe-d’Huez dedicato esclusivamente alla commedia: «Gli sceneggiatori Guy Laurent e Isabelle Lazard si sono ispirati per questo film alla storia di un loro amico, che ha iniziato la transizione di genere all’età di cinquant’anni e ha fatto di tutto per preservare il suo matrimonio. So che si tratta di un argomento sensibile, ma la commedia resta uno strumento meraviglioso per affrontare temi caldi come questo, nella speranza di dimostrare che in realtà non dovrebbero esserlo. Fin dall’inizio del film, Jean riceve questa notizia sconcertante: come reagirà? Questa è la domanda che Un uomo felice si pone di continuo, e, al di là delle apparenze, è Jean che dovrà mettersi in discussione, non Edith. Ed è ovviamente sempre di lui che ridiamo, mai con lui». La domanda che si pone Jean, sindaco conservatore di una piccola città francese alle prese con la campagna elettorale per il suo terzo mandato, è che cosa fare del matrimonio quarantennale con Edith, che gli ha appena annunciato di essere sempre stata nel profondo un uomo e di voler iniziare un percorso di transizione.
Nonostante le dichiarazioni (ingenue o furbe?) del regista e la bravura già nota degli attori protagonisti Fabrice Luchini (Jean) e Catherine Frot (Edith), nulla in questo film, comprese le loro interpretazioni, sfugge a una dimensione macchiettistica deprimente. Deprimente nel senso letterale che deprime, appiattisce qualunque possibilità che personaggi e storia ambiscano alla terza dimensione della complessità di una storia come quella che gli autori pretendono di raccontare. Deprimente perché i tentativi di far ridere sono tutti fatti a partire da stereotipi tra i più beceri che gli autori dichiarano di voler mettere alla berlina, nei quali però restano intrappolati peer mancanza di coraggio (di andare a fondo, magari disturbando la coscienza dello spettatore medio) e per mancanza di conoscenze (di cosa sia veramente una transizione di genere): una prova fra tutte è che, come sostiene il regista, si dovrebbe ridere solo di Jean come se non avesse il diritto anche lui, al di là dei suoi pregiudizi, a un tempo per capire.
Deprimente perché le vere vittime di questa operazione, oltre all’intelligenza irriverente che dovrebbe essere alla base della comicità autentica, sono le persone che l’esperienza della transizione la vivono nella realtà in prima persona o attraverso persone care. Deprimente perché non c’è alcun vero sviluppo nella psicologia dei personaggi che aiuti lo spettatore a intuire cosa passa nella mente di una persona affetta da disforia di genere e intenzionata a intraprendere un percorso di transizione e nella mente delle persone che le stanno accanto. Non salvano il film dalla sua deprimente banalità neanche le scene in cui Edith si confronta con un gruppo di sostegno i cui componenti sono vere persone transgender o non binarie (i dialoghi sono imbarazzanti) e il finale consolatorio (ma guarda un po’…) in cui il marito dichiara alla moglie ormai uomo di amarla/o ancora.