Partito con il fonico e l’operatore per un viaggio di un anno intorno al mondo, il regista austriaco Michael Glawogger (Whore’s Glory, 2011, Megacities, 2009, Workingman’s Death, 2004) ha il desiderio di realizzare un film che semplicemente guarda la realtà e la sorprende nel suo svolgersi. Untitled – Viaggio senza fine (distribuito da Zalab) è nato in questo modo, grazie alla tensione di conoscere e di cercare senza sapere cosa. Con un’auto in direzione sud, dall’Austria alla Liberia, passando per Ungheria, Serbia, Bosnia, Italia e Marocco, e tutta la strada che c’è nel mezzo, da un luogo a un altro, con il tempo che si somma e si distende, per “dare una visione del mondo che può emergere solo non perseguendo un tema particolare, astenendosi dal giudicare, procedendo senza scopo, andando alla deriva senza una direzione, tranne la propria curiosità e intuizione”. Utopia quasi raggiunta, quasi realizzata, perché questo viaggio che avrebbe cambiato il modo di vedere di un regista che ha sempre raccontato l’uomo da un punto di vista anticonformista e libero, si è fermato dopo soli quattro mesi in Liberia, appunto. Qui Glawogger contrae la malaria e muore lasciando ore di girato e un progetto condiviso e rimasto incompiuto, fino ad oggi, quando la montatrice Monika Willi ne ha fatto il film che possiamo finalmente vedere.
Sicuramente diverso da quello che avrebbe dovuto essere, eppure vicino allo spirito iniziale, in quanto realizzato a partire dai diari di viaggio del regista. E, infatti, la narrazione (la voce è quella di Nada nella versione italiana) procede in terza persona, per dare l’idea, forse, che si tratta del percorso di un uomo, ma rielaborato da qualcun altro, le riflessioni di chi si trovava di fronte a quello spettacolo nel momento in cui si svolge, mache il tempo e la morte ha necessariamente trasformato in qualcos’altro. È una sensazione precisa, che si avverte fin dal principio in Untitled: la sospensione del senso nel passaggio da un soggetto ad un altro è preponderante ma non divorante, perché ad essere raccontati non sono gli uomini e i paesaggi che via via si incontrano, ma la relazione tra essi e l’occhio che prima li filma e poi li “mette in ordine” nel montaggio. Non una narrazione, ma un procedere sparso, non la ricostruzione di un viaggio, ma la ricerca di analogie di gesti, percezioni, attimi di pura estasi, quando, ad esempio, due asini legati al terreno litigano, proprio come due bambini, oquando l’immensità del deserto sembra violata dalla corsa di un treno lunghissimo, popolato da viaggiatori impensabili. C’è una donna che cerca di proteggere il figlio di pochi mesi dal vento (si viaggia sul tetto dei vagoni), mentre uomini intorno se ne stanno in silenzio e in attesa. E poi cisono i paesaggi europei di neve o di degrado, che si confrontano con quelli di discariche africane,dove donne e bambini rovistano nella spazzatura insieme alle capre, per cercare oggetti utili e cibo. È inavitabile pensare a Fata Morgana quando il deserto riempie lo schermo e le parole si associano alle immagini creando un universo quasi simbolico, o quando gruppi di persone si soffermano davanti alla macchina da presa, guardando l’obiettivo, come venuti da un tempo imprecisato della storia. E poi ci sono i lottatori che si riempiono di sabbia e sorridono e un gruppo di ragazzi senza una gamba, che giocano a calcio in riva al mare, correndo veloci con le stampelle. Potrebbe non avere fine questo miraggio, proprio come il viaggio allucinato di Herzog, vicini e lontani al tempo stesso, osserviamo senza capire e ci spostiamo nel mondo senza muoverci, spinti da una libertà chenon si può contenere e produce vertigini.