L’istinto di conoscere il mondo, di viverlo, attraverso le immagini, quelle filmate in particolare, è un fattore primario del cinema di Naomi Kawase. Lo è sin dal principio, una vera e proprio pulsione biografica nata coi suoi primi film, in cui andava alla ricerca del mondo e di se stessa filmando la sua ricerca identitaria, il suo rapporto con la vecchia nonna che l’ha cresciuta e con il padre che ha ritrovato e imparato a conoscere cercandolo e filmandolo. Non è dunque un soggetto indifferente alla sua poetica, la storia che la regista giapponese arriva a raccontare in questo suo nuovo film, Hikari (Verso la luce, Concorso), incontro istintivo tra Misako, una giovane donna che realizza le audiodescrizioni per non vedenti dei film, e un famoso fotografo, che sta progressivamente perdendo la vista e partecipa alle proiezioni per verificare l’efficacia del lavoro di descrizione. Il rapporto che si instaura tra i due nasce dal conflitto, inscritto nell’intransigenza amareggiata dell’uomo, che spinge Misako ad andare a fondo nel suo lavoro di trascrizione del visibile, nell’elaborazione di un linguaggio sensibile alla traduzione in parole della complessità dello sguardo gettato sul mondo dal regista del film che sta adattando.
Naomi Kawase si spinge in questa relazione cercando la tensione teorica di tutto il suo cinema, da sempre calato profondamente nel décalage tra il mondo e la sua nominazione, nella ricerca di una risonanza autentica tra l’immagine vista e quella filmata, nella definizione di relazioni che vivono nell’identificazione reciproca dei personaggi, nella loro funzione empatica. Ma Hikari resta poi incastrato nella sua evidenza narrativa, nella composizione didascalica di un quadro dal quale resta esclusa proprio quella funzionalità empatica delle immagini che è poi al centro della storia (d’amore) tra Misako e il fotografo. Dopo Still Water e ancor più Sweet Bean, la Kawase sembra sempre più stretta nelle maglie di un cinema espressivamente semplificato, consegnato all’evidenza di un rapporto fotografico col mondo ormai privo di quella criticità espressiva che lo aveva caratterizzato. In Hikari il rapporto con la luce, che si sta spegnendo negli occhi del protagonista, diventa letteralmente abbagliante per Misako e si traduce per la regista nell’eccesso di controluce bruciati da una fotografia edulcorata. Così come la complessità della ricerca interiore che anima il dialogo contraddittorio tra i due personaggi viene assunta nel film come una funzione meramente romantica, con l’esito che le emozioni, di cui un tempo si è nutrito il cinema della regista, si traducono qui in sentimenti dissolti in un semplice sentimentalismo, esaltato (anzi assassinato…) da un insostenibile commento musicale, banalmente romantico e fastidiosamente invasivo.