Un’invenzione senza futuro: non poteva che toccare al Cinema raccontare l’incredibile storia “nascosta” della DeLorean DMC-12, l’auto oggi celebre ai più come veicolo dei viaggi nel tempo per Robert Zemeckis. D’altronde si sa, fra la Storia e la leggenda si predilige sempre la seconda e il principio fordiano – nel senso di John, ma visto il tema “automobilistico” non trascuriamo neppure Henry – sembra muovere bene i personaggi della storia, l’inventore John DeLorean e il piccolo truffatore Jim Hoffman. Classico uomo di successo il primo, ambizioso e attento a coltivare i suoi progetti in parallelo con la propria immagine da figlio dell’american dream, ha nel film la fisicità e la voce suadente di un sorprendente Lee Pace. A lui il compito di rappresentare un genio che sogna l’auto del futuro, nei fatti un obiettivo irraggiungibile: la DMC-12 si rivela infatti imperfetta, inadeguata alle aspettative del mondo e del progetto stesso, tanto da portare il suo creatore a cercare di ripianare i debiti invischiandosi in un traffico di cocaina. E qui entra in gioco Hoffman, che ha le mani in pasta con un’operazione sotto copertura dell’FBI per incastrare un boss dello spaccio losangelino e che, per denaro, decide di aggiungere al menu anche la testa di DeLorean, che pure dovrebbe essere un suo caro amico…
L’operazione cinematografica ha il sapore delle epopee soderberghiane, ma al piacere suadente della messinscena, tipico dell’autore di Atlanta, contrappone un taglio più incentrato sui caratteri. La duttilità di Jason Sudeikis – che nel film è Hoffman – tara così il tono di un racconto capace di ossequiare i toni lievi di una commedia paradossale, ma che fra le righe evidenzia un ritratto sociale (e storico) di grande amarezza, dove il mito del progresso e del capitale schiaccia ogni possibile rapporto umano. Dietro la patina di film “leggero”, Driven ha così il sapore di una riflessione cupa sul rapporto tra apparenza e realtà, che affonda le unghie nei gangli del sogno americano, coinvolgendo spettatori e personaggi in una vertigine di inganni. Identità, nomi e aspetto delle figure coinvolte cambiano costantemente e la stessa forma narrativa si piega a questa torsione mutante, spezzando la linearità narrativa attraverso la cornice e gli inserti ambientati nell’aula di tribunale dove si consuma l’ultimo atto che porterà alla sentenza di DeLorean. Nel gioco delle rivelazioni e dei segreti che progressivamente si palesano, manca l’atto conclusivo, il successo inaspettato dell’immaginario che ha consacrato l’auto imperfetta come l’assoluto emblema del Futuro attraverso il successo cinematografico. Troppo consolatoria per una vicenda che vede Nick Hamm prediligere ancora una volta il terreno di confronto più aspro, ramificato fin nel passato della sua storia personale: l’autore è infatti nativo di Belfast, dove DeLorean creò le fabbriche per costruire la sua auto e dove tuttora esiste una DeLorean Motor Company, rilevata da un meccanico locale, a partire dalle ceneri di quella originale. I detour della Storia, insomma, continuano e le prospettive rinnovano la natura davvero peculiare di una vettura dalle molte identità, esattamente come i protagonisti che le hanno dato forma.