Le vastità cosmiche di Gravity sono brevemente prefigurate da una visione al cinema di Abbandonati nello spazio di John Sturges, ma per il resto Roma ha i piedi ben piantati in Terra: nel Messico del 1970/71, in particolare, a cavallo tra due anni importanti per la formazione umana di Alfonso Cuaron e anche per il modellamento della società centro-americana, con il massacro del Corpus Christi a fare da punto di snodo di varie sottotrame. Il percorso di crescita è in fondo sempre caro al regista di Y tu mama tambien, ma anche se è possibile riconoscere il futuro autore tra i figli della famiglia altoborghese nel quartiere Roma di Città del Messico al centro dell’intreccio, la scena è quasi tutta per Cleo, la domestica mixteca che si prende cura della casa – e che alterna la sua lingua allo spagnolo. Attorno a lei ruotano le metamorfosi del nucleo, la crescita dei ragazzi, ma anche la sua progressione umana, costretta com’è a portare avanti una gravidanza indesiderata per colpa di un uomo che poi è fuggito per non assumersi le sue responsabilità. Se l’assunto ha un chiaro valore sociale e storico, la parabola ha una qualità squisitamente umana e riverbera l’interesse di Cuaron per un universo femminile vivificatore, ma costretto suo malgrado a una solitudine che diventa chiave di lettura di un universo disgregato e da rifondare.
Fino alle estreme conseguenze, tanto da giustificare un incedere che affonda spesso le mani nella tragedia, pur non nascondendo mai l’entusiasmo brioso di anni rivisti con una certa qual lente nostalgica, trasmettendo tutta l’eccitazione febbrile di un mondo in fermento. Lo sguardo di Cleo diventa così quello che sintetizza le varie emozioni in campo, spesso dolente e malinconico, sempre timido, a tratti spento dalla forza dirompente del dolore, ma capace di ritrovare il sorriso dopo aver compiuto l’eroico salvataggio dei ragazzi che rischiavano di affogare – un piano sequenza tra spiaggia e mare che, insieme al momento delle rivolte studentesche, costituisce l’apice espressivo del film. Le peripezie di Cleo si riflettono così in quelle della volitiva padrona di casa abbandonata dal marito e nel caos della società tutta, raccontata alternando la ricerca della spontaneità al consueto controllo tecnico atto a favorire una messinscena operistica e di grande impatto. La lavorazione è avvenuta infatti principalmente sul set, dove Cuaron ha anche curato la direzione della fotografia – un bianco e nero abbacinante che rimanda al Tetro di Francis Ford Coppola – lavorando di concerto con gli attori, prima fra tutti la non professionista Yalitza Aparicio, concedendo solo pochi spunti al giorno della sceneggiatura per sviluppare le situazioni in diretta. Un approccio favorito anche dalle avvolgenti carrellate laterali che modellano uno spazio spesso chiuso ma sempre “aperto”, poroso quanto basta per fare di ogni ambiente un piccolo mondo. La forza cristallina delle immagini – il film è stato girato in formato 65mm con macchine digitali Alexa65 – procede di concerto con la separazione dei canali attraverso un uso performativo del Dolby Atmos, e ricorda i fasti delle precedenti esperienze hollywoodiane. Come la sua protagonista, però, Roma ha un andamento discreto, “piccolo”, pur nell’impatto “grande” delle scene e riesce a colpire per l’equilibrio tra le anime del Cuaron autore, sempre pronto a meravigliarsi per le possibilità espressive del mezzo, ma capace di piegarle a una visione che privilegi questi personaggi a cui è difficile non affezionarsi. Vincitore del Leone d’oro, il film prodotto da Netflix è in sala dal 3 al 5 dicembre, distribuito da Cineteca di Bologna.