Veronica entra in una chiesa per organizzare il funerale del padre. Il prete bonario si mostra sorpreso, visto che l’uomo non frequentava la parrocchia, e chiede alla giovane di raccontare qualcosa di lui, per poter soppesare le parole da dire durante la funzione. Guest of Honour (in Concorso), che segna il ritorno del canadese Atom Egoyan a Venezia a quattro anni da Remember, parte dalla fine per raccontarci a ritroso l’esistenza di un uomo apparentemente mite e del suo doloroso rapporto con l’unica figlia. Jim Davis è un ispettore sanitario, gira incessantemente per i ristoranti di Toronto per giudicarne la pulizia, l’aderenza alle regole di conservazione e preparazione dei cibi, lo stato dei bagni e delle cucine. È pacato ma inflessibile, la voce sempre bassa ma le mani pronte a estrarre dall’inseparabile valigetta il modulo che può portare alla chiusura o al fallimento di un locale. Ma Jim porta sempre co sé un lutto e un dolore: la moglie scomparsa troppo presto per una malattia e la figlia – quella Veronica che abbiamo conosciuto all’inizio del film, professoressa di musica amata e desiderata dai suoi allievi – in prigione per una colpa forse non commessa ma che la ragazza accetta, anzi pretende, con rigore autolesionista. Guest of Honour svela piano le sue carte, attraverso un uso a incastro di flashback e ricordi sempre più disturbanti – uno dei pregi più evidenti del cinema di Egoyan è la capacità di creare uno stato di ipnotico disagio solamente attraverso lo stile, il ritmo, l’uso sintattico della colonna sonora – che rivelano un passato fatto di colpe non ammesse e manifeste rivendicazioni.
Il disastro a cui ogni esistenza giunge – la morte, la detenzione infondata vissuta come espiazione, l’umiliazione, la solitudine, l’incomunicabilità, l’assenza di amore – è il baratro di una comunicazione impossibile tra personaggi, il risultato di omissioni e omertà, di responsabilità prese sempre troppo tardi. Egoyan costruisce il suo dramma familiare come un giallo, disseminando indizi e tasselli di verità che si dimostrano il più delle volte false piste, ritrovando – purtroppo solo a tratti – l’ispirazione dei suoi film migliori. Se la ripetuta descrizione del quotidiano di Jim, fatta di reiterazioni e piccoli gesti, ha un’impalpabile tensione drammatica (anche grazie alla recitazione in punta di piedi di David Thewlis), molte delle scene rivelatrici hanno qualche traccia enfatica di troppo, qualche ridondanza che stona con il tono sommesso della tragedia. Se la prima parte del film coinvolge attraverso una narrazione in levare e uno stile asciutto e controllato, lo scioglimento degli eventi risulta un po’ affannoso, gridato, appesantito dalla necessità di troppe spiegazioni. Colpisce però l’ossessione di Egoyan verso la fallibilità di ogni ipotetica prova tangibile, la diffidenza verso un potenziale uso umano e relazionale della tecnologia: registrazioni, telefoni, filmati, messaggi, chiamati a testimoniare la veridicità di un momento o di un ricordo, si rivelano armi a doppio taglio, strumenti inservibili per guadagnarsi la fiducia di chi abbiamo accanto. Una frustrazione continua e ineluttabile che mette sotto scacco i protagonisti, li piega, li contorce in loro stessi fino a spezzarli. Così, rivelazione dopo rivelazione, confronto dopo confronto, ricordo dopo ricordo, il mosaico riesce a ricomporsi solo quando è tutto finito: una conclusione più dolente che rasserenata, buona solo per una pacificazione postuma, come un seme gettato al vento e destinato a un discorso funebre che lascerà ognuno nella propria, insostenibile solitudine.