Le scaglie sono quelle che ricoprono il piede di Hayat dopo un contatto ravvicinato con una sirena: che però doveva essere un vero e proprio sacrificio, parte di un antico rito propiziatorio in voga nella sua isola, dove ogni primogenita viene offerta da secoli alle creature del mare. Infine, però, suo padre aveva deciso di infrangere le regole e salvarla. Quel piede squamato, insieme all’intera vita di Hayat è diventato così un monito a sovvertire le usanze consolidate, anche quando sono iscritte nel cerchio della Storia e della natura. Il debutto di Shahad Ameen (alla Mostra di Venezia nella Settimana Internazionale della Critica) prende le mosse da un precedente cortometraggio dell’autrice, per raccontare una fiaba dal sapore antico, ma dalle implicazioni moderne, che usa le carte del fantastico per sottolineare il bisogno di emancipazione dell’universo femminile. La componente schiettamente “militante” è in realtà sfumata dall’incedere di un racconto che svela progressivamente il disegno e il legame di reciproca necessità esistente fra le sirene e gli abitanti dell’isola, su cui si basa l’equilibro destinato a essere rotto dalla protagonista. Non a caso, quella per l’altro è una dinamica che il film articola nel senso di una fascinazione, più che di una dicotomia vera e propria: le sirene sono creature misteriose e minacciose, ma anche magiche e vivificatrici (i pescatori le cacciano per mangiarne la carne). La vicenda le dipinge come feroci e spietate, ma sposa sovente il loro punto di vista, “squamando” letteralmente l’immagine in alcuni frangenti (sull’inquadratura compare in controluce una sorta di reticolo) e infine ci sarà spazio anche per rivederne il ruolo come vittime del patriarcato in auge nell’isola.
Lo stesso vale per Hayat, che vuole essere trattata da uomo, insiste per partecipare alle battute di caccia e compiere azioni da pescatore, ma mantiene sempre la sua natura “a metà”, da novella sirenetta anderseniana in salsa arabeggiante – il film è una coproduzione tra Emirati Arabi Uniti, Iraq e Arabia Saudita. La sua femminilità respingente ma selvaggia, diventerà così il perno attorno al quale costruire la parabola di rinascita della comunità tutta. L’aspetto peculiare di Scales è la capacità di articolare queste tensioni senza tendenze alla spiegazione eccessiva: dialoghi quasi inesistenti e una fotografia di un bianco e nero abbacinante descrivono un mondo di luci e ombre dove la materia ha una sensibilità tattile (il mare stesso ha una consistenza plastica e viscosa, che si alterna a una bellezza ipnotica). Una fiaba, dunque, ma più che altro un racconto sensibile, con una sua ricercata tensione epica, che non a caso evoca certi esperimenti del cinema giapponese: ad esempio il bellissimo classico Kujira Gami, di Tokuzo Tanaka, anche per l’analisi delle implicazioni familiari che la scelta della protagonista porta in dote. Tutto è comunque, ancora una volta, lasciato a una certa distanza, attraverso un ritmo assorto, che può apparire freddo, ma è in larga parte ipnotico. La necessità evocata da Ameed comprende infatti anche il gusto del lasciarsi affascinare per questo universo fatto di acqua, luce e roccia, aperto alle possibili derive del fantastico.