Il confine come matrice per raccontare la guerra, qui inteso come limite morale, corporeo, relazionale, geografico, politico, sempre invalicabile, ma pure come soglia da oltrepassare, orizzonte a cui tendere, sempre rinnovabile. Un segno che mostra ciò che separa con inaudita violenza, come una frattura che spezza e inevitabilmente restituisce un’identità ferita, soffocata, persa. Zielona granica – Green border (in concorso a Venezia80) di Agnieszka Holland, rappresenta il ritorno della regista polacca al lungometraggio di finzione dopo una lunga e fertile parentesi nella serialità televisiva e una manciata di titoli da noi poco visti (e poco riusciti) realizzati negli ultimi anni, dopo In Darkness e L’ombra di Stalin. La Holland è consapevole della potenza visiva e del potenziale etico del suo film perché sceglie di mostrare la guerra e le conseguenze delle migrazioni come nessuna immagine tv riesce e vuole restituire. Non si ritrae, non rinuncia ad accusare, non nasconde l’orrore, la morte, la paura, il caos. Lo comprendiamo nei primi minuti quando sorvoliamo una vasta area boschiva, silenziosa e inquietante, profonda e desolante, immersi nel bianco e nero fotografato da Tomek Naumiuk, e venendo a conoscenza della vastità di uno spazio inabitabile e inospitale che presto diventerà scenario di una immane tragedia, luogo mortifero in cui si incroceranno e si spezzeranno storie di vita perduta da quella della famiglia di profughi siriani a quella dell’insegnante di inglese che proviene dall’Afghanistan. Siamo al confine tra Bielorussia e Polonia, c’è tanto buio e poca luce, la palude è fredda, la foresta è fitta, c’è il fango, ci sono gli uomini cattivi, i profughi che arrivano da un mondo non troppo lontano e che desiderano andare oltre ma che continuamente vengono respinti e rimbalzati da una parte e dall’altra perché, come dice un comandante dell’esercito polacco “non sono persone, sono proiettili”.
In realtà, come si evince subito, alla Holland interessa consegnare lo sguardo di esseri umani illusi e delusi dalle promesse di Lukashenko, dalla falsa speranza di un passaggio indolore verso l’Europa e dall’incapacità della stessa UE di assumersi le proprie responsabilità, tanto da riconoscersi al centro di un girone infernale, una prigione a cielo aperto in cui le regole scritte non servono a niente. Qui il cinema è usato per raccontare qualcosa di invisibile e di inascoltabile, quasi in chiave illustrativa. Per tale ragione, in virtù di un’articolata e struggente polifonia che non concede sconti e, soprattutto nella prima parte, non ammette gradazioni, il racconto è strutturato in capitoli eterogenei, in termini di durata e di ritmo, ciascuno dedicato a guardare da vicino la complessità del vissuto dei protagonisti. È netta infatti, e non potrebbe essere altrimenti, la contrapposizione tra buoni e cattivi, giusto e sbagliato, luce e buio, salvezza e dannazione; così come è netta, impari e squilibrata, la lotta con le crudeltà che questa umanità è costretta ad affrontare attraversando il dolore fisico, l’umiliazione, la separazione, il distacco da ogni bene. Una scelta che progressivamente prende confidenza con la possibilità di una linearità meno intrisa di manicheismo, sia quando entra nello specifico della vicenda dell’attivista Julia (“ti credevo una borghese che gioca a fare l’attivista, e invece…”), sia quando si permette di scalfire la corazza del soldato polacco che, in procinto di diventare padre, mette in discussione, almeno in parte, l’ottusità del sistema di cui è insignificante meccanismo. Green border non vuole sollevare domande. Anche quando il finale conciliatorio e appeso ad un filo sembra aprire piccoli spiragli di luce, è un film il cui racconto sprofonda nel buio pesto.