Venezia81 – La serietà farsesca del mondo: Broken Rage, di Takeshi Kitano

È un’anima divisa in due, quella che in Broken Rage fa intrecciare i principali filoni artistici di Takeshi Kitano: ovvero quello più formalista e violento, noto fin dall’esordio di Violent Cop e l’altro anarcoide e sfrenato dei programmi tv alla Mai dire Banzai – poi riverberato da titoli come l’esilarante Getting Any? o la “trilogia dell’autodistruzione” composta da Takeshi’s, Glory to the Filmmaker! e Achille e la tartaruga. Nel film, presentato in prima mondiale a Venezia81 fuori concorso, l’autore nipponico pone lo spettatore di fronte a una vicenda-specchio: una storia raccontata in due modalità diverse, in cui un killer prezzolato, dopo aver compiuto l’ennesimo omicidio, viene arrestato e costretto a infiltrarsi in una banda di yakuza per smascherarne il traffico di droga. Dunque, da un lato la vicenda “seria”, dall’altro la sua revisione in farsa, dove ogni passaggio è rivisitato in chiave nonsense affastellando gag e derive nell’assurdo. Se è palese il tentativo dell’autore di rileggere e decostruire ancora una volta il linguaggio delle immagini, svelandone la natura fittizia sublimata dal lavoro sui generi, c’è però qualcosa in più. Dietro il divertissement, Broken Rage è infatti un viaggio che ci porta attraverso lo specchio delle due realtà, dove il sabotaggio è lì, evidente sin dalle prime battute. È nascosto dietro quell’incedere malfermo di un Kitano che, ormai diretto verso gli ottant’anni, si ripresenta al suo pubblico affaticato e un po’ malfermo, ma comunque dedito alla propria causa cinefila. D’altra parte non va dimenticato come l’attore abbia sempre inteso anche il corpo come terreno delle sue sperimentazioni, lavorando da sempre sulla fissità dell’espressione rotta dai tic che la vita gli ha lasciato in dono (ancor più dopo l’incidente del 1994), in contrappunto alla poca mobilità delle immagini.

 

 

Così, anche la vicenda seria è attraversata da un’ironia più paradossale, in cui tutto avviene molto facilmente – con toni un po’ alla Kaurismaki – che la seconda parte si limita a lasciar deflagrare in tutta la loro evidenza. Mentre gioca con il cinema, insomma, Kitano riflette sulla vita in una commedia dell’assurdo che irride il mondo e perciò mette in scena una realtà a scatole cinesi: c’è il bar che è il centro di smistamento delle missive sulle missioni omicide, il mondo della yakuza in cui vige il sospetto perenne e la stazione di polizia dove si ordiscono i piani per incastrare i malavitosi. In tutti i casi sembra regnare una deregulation morale e materiale dove ogni violenza è possibile – d’altra parte non va dimenticato come il film arrivi subito dopo quel magnifico Kubi che era un altro enorme monumento all’inganno nelle forme del più classico jidai geki. A corollario, Kitano inserisce un paio di momenti in cui la dicotomia è rotta da riempitivi in cui vediamo le chat degli spettatori commentare l’accaduto: la sintesi migliore nella moderna società dello spettacolo, dove tutto si prende sul serio, inconsapevole della sua intrinseca natura farsesca.