L’enciclopedia portatile della memoria in Bestiari, erbari, lapidari, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

C’è un’intenzione di fondo che anima l’ultima fatica registica dei due autori che da anni alimentano un flusso di immagini per riuscire, attraverso questa lente, a guardare verso un limite sempre più avanzato del cinema, in uno scandaglio inesauribile di senso e di spettacolo. Anche Bestiari, erbari, lapidari, presentato nel Fuori Concorso di Venezia81, non si sottrae a questa natura anzi, ne ridefinisce i contorni stabilizzando i temi della esplicita ricerca enciclopedica. I tre mondi con i quali ci si relaziona quotidianamente, divengono materia cinematografica, anzi il cinema diventa, nonostante le apparenti divagazioni anche scientifiche, il tema centrale di questa triplice indagine, di questa ardita composizione che non è quindi studio scientifico, o almeno non lo è per la sua parte maggiore, quanto, invece, sperimentazione di uno sguardo relazionale insistito che non può farsi se non con la mediazione del cinema come lingua onnicomprensiva che, come sempre, tutto sembra sapere comprendere nella potenzialità sintetica della visione. È in questa ricercata centralità che i tre capitoli del film, anche a prescindere da ogni ontologia della visione dei mondi, diventano modalità narrativa ed esplicativa delle possibilità, già nel passato sperimentate, di istituire un rapporto indissolubile con il mezzo del cinema che sembra immergersi nella stratificazione successiva dei temi oggetto di studio.

 

 
È con questa intenzione che D’Anolfi e Parenti intendono fornire al proprio pubblico una versione di quella realtà, una sua reinvenzione se si vuole, nel rispetto della assimilazione teorica dell’essenza delle immagini. In questa prospettiva nel primo capitolo del film il cinema diventa, al pari di uno sparo, sguardo che uccide, che deforma e interviene sulla realtà, al pari di Peeping Tom e l’atto di mirare nell’obiettivo della macchina da presa fa il paio con la deflagrazione di uno sparo. È proprio il cinema e le ricerche d’archivio di quelle immagini che sembrano frammentare i movimenti degli animali, in quell’analisi puntigliosa degli studiosi, ad avere ingabbiato il mondo animale, ad averlo utilizzato esclusivamente come tema di studio, negando ai singoli componenti del mondo animale l’individualità che gli spetta. Analisi se si vuole spietata, ma oggettivamente vera, laddove il cinema diventa complice della cronaca di uno sterminio. È così che Bestiari, erbari e lapidari diventa una lucida e sapiente analisi, oltre che visione originale dei tre mondi, strumento offerto al pubblico in un’ottica perfino ecologica, per quella conoscenza della inattesa spettacolarità delle vite che animano le tre sfere dei nostri habitat. C’è anche un’ottica scientifica che, soprattutto nel secondo capitolo, completa con una dovizia di informazioni e di attenzione alla conservazione, l’apparato delle immagini che per lo più sono state girate nel grande e antico Orto botanico di Padova. Non si può prescindere dalle notizie apocalittiche che sono la conseguenza di scelte sempre dissennate, nell’incapacità di deviare dalla piega alla quale ormai sembra ci si sia assuefatti, nella progressiva distruzione del mondo vegetale che condurrà all’inesorabile distruzione del pianeta.

 

 
Bestiari, Erbari, Lapidari aprendo per lo spettatore orizzonti percettivi sa farsi anche utile dispositivo per creare archivi, scandagliare le stratificazioni invisibili. Lo comprenderemo guardando il terzo capitolo che si occupa della creazione dei vari tipi di cemento, ma anche di quella storia recente che ci appartiene. Una storia scritta con l’emersione di documenti seppelliti tra gli scaffali dell’Archivio di Stato che – qui si – ricostruiscono l’individualità perduta dei nomi di persone confinate, di anarchici e comunisti, forse definiti pazzi, seppelliti sotto anni di quella polvere che le immagini fanno volare via. Forse tutto questo non una novità assoluta, ma la logica stringente che anima il lavoro dei due registi, ne valorizza il contenuto, ne esalta i contrasti, fa emergere le contraddizioni e interviene con la necessaria autorialità a farci scoprire, ancora una volta la vicinanza che ci unisce a queste sfere di realtà, piuttosto che la distanza che ci divide. Si tratta di mondi vicini e visibili, con i quali le relazioni umane si limitano ad una contemplazione, ad un utilizzo che sa di spreco, senza ricerca di senso che serva a ricomporre la catena vitale che ci accomuna. Il cinema diventa collettore e catalizzatore di questa emersione del senso, di questa costruzione di nuove relazioni, enciclopedia portatile della memoria, archivio di conoscenze depositato dentro noi stessi, ma a noi stessi al contempo sconosciute.