Con Non perdiamoci di vista, Loris Mazzetti racconta Enzo Biagi

Il 6 novembre saranno dieci anni che se n’è andato Enzo Biagi, uno dei più grandi giornalisti del 20º secolo, che ha peraltro lasciato un segno anche nel nuovo millennio. Quel giorno andrà in onda su Rai 3 uno speciale televisivo curato dal regista e giornalista Loris Mazzetti, che di Biagi è stato amico e collaboratore alla tv pubblica, in programmi come Il Fatto, Viaggio verso il Duemila, Cara Italia, Giro del mondo, Rt – Rotocalco Televisivo, ma pure in memorabili reportage a Sarajevo, Cuba, nella New York post 11 settembre. Mazzetti, che è stato capostruttura di RAI 1 e RAI 3, e che attualmente è nella Direzione Editoriale della stessa RAI, ha recentemente pubblicato Non perdiamoci di vista (Aliberti Editore, 2017, pp. 608, € 19,50), il suo terzo volume su Biagi, dopo quelli licenziati negli scorsi anni per Rizzoli (Io c’ero e 14 mesi). Il libro, firmato Biagi-Mazzetti, è un racconto che si dipana attraverso interviste “che hanno segnato un’epoca”, effettuate da Biagi per il piccolo schermo o la carta stampata; materiale che Mazzetti ha provveduto a sistematizzare e a contestualizzare, per far comprendere al lettore di oggi motivi, luoghi e condizioni in cui ogni pezzo fu concepito. Da Primo Levi a Malcolm X, da Mu’ammar Gheddafi a Yāsser Arafat, da Enrico Berlinguer a Silvio Berlusconi, da Marcello Mastroianni a Ugo Tognazzi, da Pier Paolo Pasolini ad Alberto Sordi, da Gianni Agnelli a Tommaso Buscetta, da Mehmet Ali Agca a Joe Cannon, da Carlo Maria Martini a Cassius Clay: sono soltanto alcuni dei protagonisti delle pagine che Mazzetti ha ricomposto, corredandole con un’intervista che egli stesso fece a Biagi nel 2004, rigorosa e ricca di elementi profetici. Abbiamo incontrato Loris Mazzetti.

 

Mazzetti, racconta Biagi attraverso le interviste che egli stesso realizzò. Come le è venuta l’idea?

Era già una leggenda, quando cominciai a lavorare con lui; eppure non si pose mai nei miei confronti con l’atteggiamento del maestro, di chi dovevo e voleva insegnare qualcosa. Ho capito quando non c’era più, che in anni di affettuosa vicinanza ne avevo inconsapevolmente assimilato il modo di intervistare, fatto di domande brevi e con grande spazio per l’interlocutore. Alla base del libro non c’è una strategia precisa: mi è venuto naturale fare in questo modo, che ritengo rispecchi la personalità di Enzo.

 

Leggendo, si ha l’impressione che Biagi non facesse sconti a nessuno. Era davvero così?

Nelle interviste a Fellini, a Tognazzi, a Mastroianni, credo che si percepisca anche il senso dell’amicizia; più nelle risposte che non nelle domande, perché, aprendosi a Biagi, essi raggiungevano una profondità che nascondevano ad altri. Per il resto, simpatie e antipatie erano estranee al suo modo di lavorare, anche se Biagi le aveva, nella vita di tutti i giorni, e pure piuttosto forti. D’altronde la sua “faziosità”, il suo prendere posizione, sono spesso stati dichiarati: il programma che segnò un’epoca si chiamava Il Fatto di Enzo Biagi e questo indicava come la scelta cadesse su ciò che, della giornata, assumeva importanza agli occhi di Biagi stesso; quindi un approccio soggettivo, non oggettivo. Ma era dei politici, in particolare, che non si fidava; di essi diceva: “da loro dobbiamo sempre farci dare del lei”. E ai tempi de Il Fatto aggiunse: “Noi possiamo avere degli amici, ma il programma non ha amico alcuno”.

 

A proposito di amicizia: quella tra Biagi e Montanelli di che tipo fu?

Speciale. Biagi considerava Montanelli un maestro e, sebbene avessero caratteri diversi, il rapporto fu molto profondo. Andava peraltro a braccetto con una sana competizione professionale: nel periodo in cui erano entrambi al Corsera, si rincorrevano con gli editoriali…Ma Enzo si battè per far tornare Indro al Corriere, lo aiutò con La Voce. E molto prima, correva il 1961, approdando in Rai, appena ne ebbe l’occasione, Biagi chiamò gli amici Montanelli e Giorgio Bocca a collaborare.

 

Due grandissimi, Montanelli e Bocca, ma la cui carriera in televisione non si può certo paragonare a quella di Biagi…

Vero, anche se per motivi diversi. Bocca non aveva i tempi televisivi, e forse non fu nemmeno aiutato molto, quando si cimentò con continuità con il mezzo; a Montanelli, invece, della televisione non importava assolutamente nulla.

 

Come accolse Biagi il famoso “editto bulgaro” del 2002, con cui l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ne chiedeva l’epurazione dalla Rai, in aggiunta a quelle di Santoro e Luttazzi?

Con classe: lo si vede nella puntata de Il Fatto con cui replicò, e che non fu censurata dalla Rai, come invece molti pensarono. Gli stacchi, i lampi di luce che si intuiscono nel montaggio non sono tagli, ma conseguenza delle pause di Biagi che, ingoiato un rospo amaro, faticava a leggere. Non ce lo saremmo mai aspettati quel diktat, anche perché il programma (che recentemente una giuria di critici televisivi ha reputato “il migliore dei primi cinquant’anni di Rai”) funzionava benissimo. Un Biagi più giovane avrebbe combattuto di più: ma quella piccola tragedia si collocava tra due tragedie vere, la morte della moglie e quella della figlia più giovane. Cosa che attenuò la sua reazione. In tema devo però fare una precisazione…

Prego…

L’epurazione suggerita (pretesa?) da Berlusconi non riguardava Biagi in Rai, ma quello specifico programma, in prima serata. Solo che il “nonno” (come era chiamato in Rai da sempre, a causa della chioma precocemente imbiancata, ndr) non accettò proposte alternative. Biagi citò, al principio di uno dei suoi saggi, un proverbio cinese che amava molto: “La luce del tramonto è magnifica, ma la notte si avvicina”.

 

Come furono gli anni che ne precedettero la notte?

Meno belli, con meno voglia di combattere, proprio per le tragedie che lo colpirono e di cui ho detto. La moglie era per Biagi una vera compagna di vita, che lo seguiva con discrezione ovunque. E la morte della figlia minore lo provò ulteriormente. Altrimenti non avrebbe aspettato cinque anni prima di tornare sul piccolo schermo.

 

Introducendo la sua intervista a Biagi, lei cita il concetto di crossmedialità come sua precisa caratteristica. Perché?

Perché era sempre sul pezzo, sempre aperto alle novità tecnologiche, se potevano essere utili. Infatti fu tra i primi a volere Internet collegato a un suo programma, ancora Il Fatto. E non per avere maggiore visibilità, come si potrebbe pensare (in fondo non ne aveva davvero bisogno); decise di creare il sito della trasmissione per avere un rapporto più diretto con i cittadini, che fino ad allora avveniva prevalentemente con lettere e fax; ed effettivamente servì per scoprire nuove storie da raccontare. Il suggerimento ci arrivò da Antonio Ricci, autore di Striscia la notizia, in onda su Canale 5.

 

Perché un concorrente vi lanciava un’idea vincente?

Perché era un amico, che mai si comportò da competitor, nonostante i due programmi andassero in onda contemporaneamente. I veri antagonisti de Il Fatto stavano all’interno della Rai, e non erano certo al servizio dei telespettatori, ma di quei politici che davano “un aiutino” alle carriere, e a cui le nostre denunce, più in generale i nostri racconti, non stavano bene. Ci trattavano da ficcanaso, quando invece cercavamo solo di informare.

 

Sono proverbiali la schiettezza e la riservatezza di Biagi. Era sempre così?

Era introverso, ma anche cordiale e spiritoso. E una volta che si riusciva a entrare in confidenza con lui, piacevolissimo. Ha comunque ragione Francesco Guccini quando sostiene, con efficacissima sintesi, che “al fondo era un montanaro dell’Appennino tosco-emiliano, e questo dice tutto del suo carattere”.

 

Lei è un grande esperto di televisione. Anche facendo la tara dell’amicizia con Biagi, c’è oggi un personaggio che gli assomiglia nella TV italiana?

Ci sono bravi giornalisti, ma non uno del livello di Biagi, con il suo carisma e la sua capacità di arrivare dove gli altri non ce la fanno. Non in Italia, perlomeno.