Figure in sospensione fuori tempo massimo, tra biografie da eterni adolescenti e miti arcaici di una grandezza ormai persa: in Museo Alonso Ruizpalacios inverte le coordinate della sua opera prima, Gueros, ma cerca la medesima dimensione per i suoi personaggi persi nel nonluogo di Satelite, periferia suburbana di Mexico City. Gael Garcia Bernal, attore mai gratuito rispetto ai progetti in cui è coinvolto (qui anche produttore esecutivo) è il corpo vago di questa eterna adolescenza dell’essere: Juan Nuñez è un trentenne senza storia, perso tra la famiglia, che lo ama ma non crede in lui, e l’attesa di un’età adulta rimandata ancora e sempre, proprio come gli studi di veterinaria da portare a termine. Il suo legame con l’amico di sempre Benjamin Wilson (Leonardo Ortizgris, già in Gueros), legato a doppio filo al padre malato, ha le stimmate dell’adolescenza protratta. La loro mitologia personale si costruisce attorno al mito fondativo nazionale dei Maia, museificati nell’archeologia delle reliquie esposte nel patrio museo, ad uso e consumo dei turisti: quei resti vanno liberati e la notte di Natale questi due buoni a nulla si rivelano ladri d’arte infallibili, irrompendo nel Museo e portando via oggetti di inestimabile valore. Atto da eroici furfanti, che nemmeno loro riescono a credere di essere stati in grado di portare a termine…
In Tv non si parla d’altro e i due si ritrovano proiettati un una fuga segreta, in cerca di un mercante d’arte cui vendere il bottino, nella certezza che andrà in mani più meritevoli degli occhi dei turisti paganti in visita al museo. Si questa trama Alonso Ruizpalacios costruisce la sua commedia della liberazione: l’on the road in cui i due sbandati si spingono e la fuga verso una libertà che confonde identità personale e nazionale, esattamente come il film si libera progressivamente della sua struttura, spingendosi in una trasfigurazione filmica del tema della fuga identitaria. Invertendo l’essenzialità del bianco e nero di Gueros, infatti, Ruizpalacios s’inventa un film che sfarfalla negli stilemi del cinema d’azione più classico, proiettando i suoi protagonisti in una struttura che slarga le coordinate iniziali: partendo dalla soffice e oppressiva chiusura degli interni familiari, dominati dalla figura paterna ingombrante (il cileno Alfredo Castro, volto di riferimento del cinema latino contemporaneo), i due transitano attraverso l’indefinito scenario suburbano di Satelite e l’avventurosa scena del furto al Museo, per spingersi in una fuga che ha le stimmate del road movie disperato come una presa di coscienza. Ruizpalacios s’inventa spiazzamenti visivi, piani sequenza che elaborano lo smarrimento (straordinario quello in cui decidono di non vendere la refurtiva al mercante d’arte americano), disfunzioni di una messa in scena che consegnerà i protagonisti a una dimensione del mito (cinematografico) pura e semplice. Cinema di passione e di identità, che trova la sua potenza in una regia estremamente consapevole e altamente inventiva e in una scrittura che sa dare corpo e idee a due personaggi in cerca di se stessi.