Una storia russa raccontata da uno scozzese figlio di un napoletano ma ispirata a un fumetto francese con due coprotagonisti americani (Steve Buscemi è Kruscev, Jeffrey Tambor Malenkov) e distribuita da Gaumont. C’è da confondersi. Ma se si supera l’effetto straniamento che provoca una commedia sui convulsi giorni successivi alla morte del “padre dei lavoratori” recitata in (finissimo) inglese da attori british (l’ex Monthy Python Michael Palin è Molotov, Jason Isaacs è Zukhov… svetta su tutti Simon Russell Beale nei panni di Berija) The Death of Stalin (a gennaio nelle sale italiane con il titolo Morto Stalin, se ne fa un altro) è una bomba.
Perché funziona come un congegno ad orologeria, fa della sceneggiatura dello stesso regista Armando Iannucci (con Peter Fellows, Ian Martin e David Schneider) il punto di forza intorno al quale far girare la rappresentazione, secondo uno schema non nuovo, quello della pochade, che però bisogna essere bravissimi a maneggiare affinché non finisca tutto in farsa. L’operazione è interessante per due motivi. Il primo, immediato, riguarda l’incastro tra i vari personaggi, i tempi comici del racconto e i luoghi (quasi tutti interni). Dalla drammaturgia, dalla prova degli attori e dai dialoghi scaturisce la forza comica del film. Il secondo motivo riguarda invece il potere nel suo farsi e soprattutto nel suo disfarsi. Ci si può interrogare se sia lecito ridere di una figura come Berija, che ha ucciso o mandato a morire centinaia di migliaia di persone, ma qui la vera domanda è un’altra: riesce The Death of Stalin a conservare la tragicità di queste figure, dei loro misfatti, pur raccontandole secondo i codici del comico? Credo di sì. Anzi, si tratteggia con intelligenza un’autopsia del potere, rappresentato da un tiranno ubiquo e assoluto, per rivelarne le umanissime miserie.